L’uscita della sesta stagione di Black Mirror, dopo oltre quattro anni dalla precedente, sta inevitabilmente prendendo forma come un evento epocale e divisivo. Ciò è dovuto a diverse ragioni: per molti lo show di Charlie Brooker sta muovendosi inesorabile lungo la sua parabola discendente, per altri >non c’è più lo stesso brio a recepire i contenuti della serie con la stessa angoscia di un tempo. La macabra sintesi di queste percezioni trova sfogo nella nuova direzione intrapresa dell’autore, il quale non ha alcun timore nel dichiarare la sua sconfitta. Purtroppo per noi, il nuovo corso di un’opera che ha sempre tratto giovamento dal vivere nel paradosso tra intrattenimento e critica ha assunto la forma di una grigia presa di coscienza. Se un tempo Black Mirror rappresentava oscuri riflessi di un mondo ipotetico, oggi non fa altro che rappresentare ciò che siamo diventati o, più generalmente, come il mondo è cambiato a causa nostra.
Pur resistendo stoicamente a guardare oltre la propria prospettiva, l’uomo di oggi non è più quello di dodici anni fa. Non può più esserlo, neppure sforzandosi. I paradossi della tecnologia e del progresso hanno inevitabilmente preso il sopravvento, ed è nell’enfatizzare questo aspetto che Brooker sfrutta nuovamente le sue competenze giornalistiche. Dopo aver egregiamente raccontato l’orrore dietro il progresso nel corso del tempo, oggi Black Mirror prova a mostrarci dove siamo arrivati: accettando tutte le sperimentazioni stilistiche e tematiche, allontanandosi con tenacia dalle proprie origini, la serie prende atto di non riuscire più a raccontare il futuro. Il futuro, in un mondo in cui la tecnologia corre più veloce dell’ingegno di qualsiasi autore, è adesso. Per questo il Charlie Brooker di oggi, che prima usava i riflessi dello specchio nero per direzionare l’attenzione degli spettatori ignari, appare assorto e attonito nel guardarsi intorno.
Con un ribaltamento totale della prospettiva a cui tutti siamo stati abituati, capace di causare ribrezzo o addirittura noia, è lo showrunner a raccontare il suo sgomento nell’accorgersi che chi si lasciava catturare dalle prime puntate della serie, e peggio ancora chi ha cominciato a vederla oggi, si trovi immerso nello specchio nero già da tempo.
Dall’incubo alla realtà
Black Mirror, all’epoca del suo debutto, invitava gli spettatori a osservare da un punto di vista decisamente critico il futuro dell’umanità. Nel mondo dello specchio nero, la prospettiva peggiore lasciava spazio agli istinti e all’orrore, ma permetteva di osservare le cose in maniera più attenta grazie a un perspicace uso della paura. La serie ha così assunto portata globale, raccontando episodi specifici e differenti che potessero appetire tutti, analizzando possibili futuri, vicini o distanti, e introducendo tecnologie sempre più complesse che giocassero un ruolo di primo piano con il loro impatto sulla morale umana, sui processi decisionali della società e della politica. Per anni, lo specchio nero ha rappresentato ciò che si trova dinanzi a noi al cessare della tecnologia: un mondo di riflessi distorti da cui stare scrupolosamente alla larga.
La maggior parte degli spettatori, cadendo nel triste gioco dell’intrattenimento e dell’esperienza visiva, ha tuttavia percepito Black Mirror come un mero spazio immaginario, guardandosi bene nel discernere reale e fittizio. Il suo incredibile successo e la sua parabola contenutistica sempre più concentrata dalla tecnologia all’essere umano non fanno altro che testimoniare la nostra condanna: nel giro di pochissimo tempo, la serie ha spostato il suo focus verso il presente, senza tuttavia perdere (sbagliando) i contorni della distopia. In pieno paradosso culturale, anche la più alta delle critiche sociali si è vista mercificata e neutralizzata della sua reale efficacia, trovando rari consensi tra chi ha assistito al cambiamento dall’inizio e chi in questo mondo ci è nato: Black Mirror esiste da sempre come monito di massa, ma di fronte a una tecnologia che corre senza sosta verso nuovi orizzonti la distopia ha finito per diventare mero intrattenimento per individui schiavizzati dagli strumenti della propria liberazione.
La parabola dello schermo nero non è più soltanto una cupa minaccia. Il suo tentativo di spingerci a guardare dentro noi stessi, concentrandoci sui riflessi e non sul vuoto, è palesemente fallito: come sempre detto da Brooker in persona, lo schermo non doveva essere altro che la rappresentazione di mere superfici vuote che permettessero di vedere le nostre ombre più da vicino. Oggi quel vuoto ha inglobato l’individuo, allontanandolo sempre di più dall’attenzione e dalla razionalità: adesso lo specchio nero può solo rappresentare il vero lato oscuro del progresso, ma nella sua metafora più tangibile, che riconosce la tecnologia come figlia dell’uomo e quindi come parte di esso. Nonostante le vane speranze di totale riuscita e tentativi non sempre centrati da parte del suo autore (tanto da domandarci se sia una serie che oggi ha ancora senso), Black Mirror continua a sforzarsi, ricordandoci che siamo noi gli artefici della nostra rovina.
Prospettive dall’oblio
Questi anni di stallo sono senza dubbio serviti a Brooker per analizzare tale prospettiva in un’ottica che accarezzi l’orrorifica idea secondo cui la distopia si sia congiunta alla realtà. Un processo ormai inevitabile, per molti, ma tremendamente coerente con la tendenza che Brooker ha sempre evidenziato nelle sue opere. Per quanto critico e problematico, il percorso attuale di Black Mirror si rivela drammaticamente necessario: la critica aperta all’intrattenimento targato Netflix e piattaforme streaming del primo episodio (al netto di eventuali ipocrisie interne alla produzione stessa) rappresenta l’apripista fondamentale per un nuovo corso e al contempo la chiusura definitiva di ciò che ha ammaliato intere generazioni di spettatori.
Le altre puntate non sono altro che divagazioni su tematiche diverse e attuali, dall’ossessione per i contenuti ai drammi spaziali e al razzismo, utili a esplorare generi differenti. La sesta stagione di Black Mirror riflette questa volta lo sguardo affranto del suo genitore, che alza bandiera bianca contro la tecnologia e guarda corrucciato verso l’uomo e la sua fallibilità. Tornare indietro è impossibile; stare al passo col reale è estremamente difficile. L’unica soluzione è quella di guardarsi dentro, scavando a fondo tra paure e desideri, mettendo da parte le prospettive troppo lontane. L’intreccio tra queste componenti funge da base per la critica del moderno Brooker, che forse sta ancora cercando di trovare un reale senso in un simile disordine. La qualità migliore dello showrunner, però, emerge proprio in questa difficoltà, nella sua capacità di trasmettere il proprio punto di vista e di tenere tutto insieme con un unico filo conduttore. Lo show gioca senza scrupoli coi propri personaggi, sperimenta senza timore e si lascia trasportare dalle proprie fantasticherie senza mai dimenticare il dramma esistenziale dell’essere umano 3.0.
A riguardarla oggi, l’epopea di Black Mirror potrebbe apparire sconclusionata e poco incisiva a un occhio poco attento. Ma se c’è un fattore comune che non smette mai di sorprendere è l’intenzione di sfruttare la follia e l’assurdo per raccontare ciò che siamo sempre stati. Partiti da sparuti riflessi di un mondo peggiore del nostro, siamo finiti col rimanere intrappolati nello schermo nero senza apparente via d’uscita. E nella maggior parte dei casi, ne siamo felici. Se è vero che è l’uomo il centro di tutto, il responsabile di ogni suo male, è lecito chiedersi quale futuro possa esserci per lui – anche se è impossibile trovare una risposta. E forse, proprio perché le ombre di domani tentano di occupare spazio in un territorio ancora incerto, anche il futuro di Black Mirror si rivela totalmente indecifrabile.
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