Lo scorso 23 settembre Netflix ha rimosso l’etichetta LGBTQ dalla miniserie di straordinario successo di pubblico Dahmer – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan. Il progetto televisivo con protagonista Evan Peters nei panni del serial killer di Milwaukee ha l’ambizione di raccontare non soltanto l’infanzia, l’adolescenza e la turbolenta crescita di uno dei killer più efferati e scioccanti nella storia degli Stati Uniti, ma si prodiga anche nel narrarne la scia di omicidi prendendo a prestito punti di vista differenti nel racconto.
Sì, perché Dahmer non è semplicemente l’ennesima serializzazione degli orribili atti perpetrati dal personaggio titolare, bensì un disperato grido di denuncia verso un sistema, soprattutto quello delle forze dell’ordine statunitensi, imbevuto di razzismo e omofobia, sentimenti questi che hanno per decenni facilitato il sanguinolento compito a Jeffrey Dahmer; le sue vittime, nella maggior parte dei casi adolescenti o ventenni omosessuali di etnie non bianche, sono cadute come mosche nella rete della follia di Dahmer senza che le forze dell’ordine abbiano mai avviato una concreta indagine, nonostante le svariate sollecitazioni. Cosa ha a che fare tutto questo con la polemica legata all’etichetta LGBTQ che Netflix aveva posto alla miniserie nel suo catalogo? Ve lo spieghiamo qui.
L’antefatto: Netflix viene presa di mira
La miniserie creata da Ryan Murphy e Ian Brennan debutta in esclusiva su Netflix a partire dal 21 settembre, ricevendo immediatamente una fortissima attenzione mediatica. Non soltanto si raccontava nuovamente (non è il primo adattamento audiovisivo dedicato al killer) la vicenda del cannibale di Milwaukee a un pubblico più ampio, ma si consegnava inevitabilmente alla gogna dei social network una storia sanguinosa che ancora brucia come ferita aperta nella comunità LGBTQ americana. Difatti, a partire dallo stesso giorno del debutto su Netflix e per i seguenti due, moltissimi utenti di Twitter e TikTok hanno messo in atto rimostranze pubbliche sull’inadeguatezza della catalogazione del prodotto in “Serie a tema LGBTQ+”.
La ragione? Jeffrey Dahmer era un ragazzo omosessuale con problemi mentali che nel corso di tre decenni ha catturato e assassinato in maniera brutale ben diciassette giovani dello stesso orientamento sessuale e di etnia afroamericana o asiatica. Un biglietto da visita decisamente non gradevole per l’immagine della comunità LGBTQ+, che dalla piattaforma di streaming si aspetta da sempre in quello specifico catalogo serie e lungometraggi che trattino le lotte e il progresso dei suoi membri con rispetto, dignità e senso della speranza.
Una polemica inutile?
Una polemica che è prima nata da alcuni utenti su Twitter e TikTok, ma che poi si è estesa a macchia d’olio su tutto il web; la conseguenza per Netflix è stata duplice: da una parte le visualizzazioni della miniserie sono rapidamente schizzate, dall’altra i piani alti della piattaforma hanno deciso di eliminare Dahmer dal catalogo di prodotti a carattere LGBTQ+. Una scelta giusta? Secondo la nostra opinione, sia Netflix che la comunità chiamata in causa potevano fare decisamente di meglio.
Questo perché, in fin dei conti, la serie creata da Murphy e Brennan è solo l’ultima della vittime eccellenti di quella macchina del fango mediatico che colpisce tutto e tutti indistintamente, in nome di una cultura “woke” e inclusiva che però spesso e volentieri pregiudica la qualità e gli intenti di qualsivoglia opera d’arte. Dahmer – Mostro: La storia di Dahmer non è un prodotto televisivo che danneggia l’immagine della comunità LGBTQ+ americana, bensì la celebra e la omaggia dando vita a un macabro epitaffio in memoria delle vittime e delle persone coinvolte nelle malefatte del serial killer.
Difendere la miniserie
Certo, la scelta preventiva di Netflix volta a spegnere al più presto i fuochi della polemica è tutto sommato comprensibile, un po’ meno l’accanimento di alcuni utenti e membri della comunità LGBTQ+ di spingere la piattaforma a cancellare quell’infausta etichetta dalla serie di Murphy. Una polemica, questa, che è nata essenzialmente prima ancora che moltissimi utenti di Netflix avessero terminato i dieci episodi che costituiscono la miniserie, precludendo allo stesso prodotto audiovisivo il tempo necessario affinché di Dahmer se ne parlasse, si aprisse dibattito, confronto e analisi costruttive. Una polemica nata da scelte “di pancia”, che rendono un disservizio non soltanto alle intenzioni della serie, ma anche a coloro della comunità LGBTQ+ che si sono sentiti minacciati e sviliti dalla catalogazione del prodotto sulla piattaforma.
Eppure, guardando bene la serie con Evan Peters, ci sarebbe ben poco di cui polemizzare; che possa convincere o meno la resa e il linguaggio narrativo utilizzati, Dahmer – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer ha un grandissimo pregio: ha dato voce all’interno dei suoi stessi episodi alle innumerevoli vittime della follia del killer regalando ad esse archi narrativi, sequenze, dialoghi e talvolta intere puntate dove queste hanno potuto respirare di vita propria. Non più soltanto “vittime sacrificali” dell’instabilità mentale di Dahmer, bensì esseri umani con desideri, pulsioni, paure e complessità; emblemi di una comunità LGBTQ+ che, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, si faceva sempre più padrona di un futuro progressista e radioso.
Lo stato dell’arte
Che la miniserie di Ryan Murphy non abbia poi convinto nemmeno le famiglie delle vittime che l’hanno additata di perpetrare “pornografia del dolore” è un altro paio di maniche, ma a conti fatti ci risulta difficile accusare il prodotto audiovisivo di mancanza di sensibilità nei confronti della comunità LGBTQ+. La polemica scaturita sul web ai danni di Dahmer – Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer diventa così l’ennesimo emblema del precario stato dell’arte al giorno d’oggi; per questo motivo ci verrebbe da chiedere ai suoi ferventi detrattori la seguente domanda: chi decide quali opere d’arte dovrebbero essere realizzate oggi? In quale modo? E per chi?
Ma soprattutto: coloro che a partire dal day and date del rilascio su Netflix si sono sentiti minacciati dalla catalogazione della miniserie avevano veramente completato la visione di tutti gli episodi per formarsi un’opinione super partes? Ci viene da pensare che di questi tempi si riesca a passare con fin troppa facilità da genuine spinte inclusiviste alla cieca intransigenza.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!