Si tratta di una serie animata franco-americana scritta da Michael Green (Logan, Blade Runner 2049) e Amber Noizumi. Già qui si trova la prima sorpresa: uno studio e autori occidentali che riescono a rappresentare accuratamente quella storia del Giappone segnata da una forte politica di controllo, ma anche di prosperità economica e trasformazione.
La storia di Blue Eye Samurai, incentrata sulla nostra protagonista Mizu, si sviluppa in otto episodi dai 30 ai 60 minuti e si intreccia attivamente con il periodo storico, in cui a detenere il massimo potere politico e militare era la famiglia Tokugawa. È proprio da qui che si deve partire per poter capire e apprezzare l’opera a tutto tondo.
Un tuffo nel periodo storico: il Periodo Edo
Dopo una fase di lotte cruente, Tokugawa Ieyasu porta la sua famiglia al potere nel 1603. Iniziano così due secoli racchiusi sotto il nome di Periodo Tokugawa – noto ai più come Periodo Edo. Si tratta di un’era in cui la pace viene mantenuta attraverso un sistema di feudalesimo centralizzato, in cui tramonta la figura dell’imperatore e il potere esecutivo va all’aristocrazia guerriera e agli shōgun.
Nel tentativo di sedare le ribellioni piuttosto attive, vengono emanati gli editti del Sakoku, un ulteriore irrigidimento della politica di controllo già severa. Questo prevedeva diversi passi: si inizia con la persecuzione nei confronti dei cristiani per ragioni politiche, poi il controllo sui commerci, fino alla chiusura definitiva del Giappone nel 1639, l’editto finale. Gli ultimi due punti si muovono in parallelo.
Il Paese impedisce al suo popolo di uscire e, a coloro che si trovavano all’estero, di rientrare. Nemmeno i naufraghi in mare potevano fare ritorno sulle coste giapponesi, come se ciò che era al di fuori del Giappone fosse in qualche modo contaminato: il nucleo di Blue Eye Samurai (“È una pistola sporca che viene da un posto sporco” ep. 1). Da questa decisione si arriva a limitare il commercio estero all’isola di Deshima, nei pressi del porto di Nagasaki, città con cui era collegata attraverso un ponte rigidamente sorvegliato. Infatti, durante il Sakoku gli unici stranieri ammessi erano commercianti cinesi e olandesi, confinati sull’isola progettata unicamente per poter ospitare i mercanti.
L’irrigidimento trova espressione anche in altre forme, come la divisione fra classi sociali in scala gerarchica di ispirazione neoconfuciana – il sistema mibun – dove era impossibile il passaggio da una classe all’altra.
La divisione era riconoscibile, tra le altre cose, dai vestiti indossati nelle varie classi. È proprio così che nella serie si riconoscono immediatamente i personaggi e il loro rango di appartenenza: dagli abiti semplici dell’affabile Ringo alle vesti sfarzose e preziose della principessa Akemi.
Non solo l’abbigliamento, ma anche lo sviluppo delle città è rappresentato con precisione meticolosa. In Blue Eye Samurai l’ambientazione cambia più volte: vediamo la bellissima campagna, le montagne più ostili, ma anche le nuove città dall’architettura inconfondibile e le infinite lanterne di carta appese agli edifici. Infatti, in epoca Edo le città fioriscono e l’economia si sviluppa, portando alla nascita di Ōsaka, Kobe e Tōkyō che, da piccolo villaggio di pescatori, molto presto diventa la più grande città del Giappone e la sua capitale effettiva, sotto appunto, il nome di Edo.
Mizu e la vendetta
La trama segue le avventure di Mizu, una donna emarginata che cerca vendetta nei confronti di quattro uomini europei entrati illegalmente in Giappone dopo la chiusura dei confini. Lo spettatore entra nel passato di Mizu attraverso una serie di flashback iniziali sulla sua infanzia violenta, segnata da crudeltà e maltrattamenti a causa di una sua diversità, che la spinge a nascondersi dalla società fortemente razzista. Infatti, gli occhi di Mizu sono azzurri, dimostrando la sua origine “impura”, termine chiave della serie che dà il titolo anche all’episodio pilota. Tutta la vicenda ruota attorno alla sete di vendetta che la porta sulle tracce dell’antagonista Fowler – doppiato da nientemeno che Kenneth Branagh -, uno dei quattro europei a cui attribuisce la colpa di questa sua maledizione.
La strada di Mizu è lunga e costellata da vittorie, ma anche tanti fallimenti e sofferenza. Attraverso i flashback seguiamo il suo percorso sulla via del samurai fin dagli arbori, quando è solo una bambina rifugiatasi nel bel mezzo del nulla con un forgiatore di katana cieco. Dotata di un’ottima tecnica e una straordinaria padronanza della spada, l’unico movente delle sue azioni sarà sempre la vendetta più pura. Anche i sentimenti e le esperienze positive vengono messi in secondo piano a favore del suo obbiettivo primario.
È un tema caro a moltissime narrazioni, ma in questo prodotto funziona particolarmente bene. Il ricordo delle ragioni per la sua rabbia alimenta costantemente Mizu, che non potrebbe liberarsene neanche volendo. Attraverso i flashback lo spettatore si scontra con questa ossessione riuscendo ad empatizzare con la protagonista. La serie è esplicita e cruenta, quindi si ha testimonianza dell’orrore che ha dovuto subire per una colpa non sua. Si trae una motivazione per questa vendetta, ogni gesto di Mizu è ponderato su uno schema più ampio che la porterà esattamente dove vuole arrivare e alla fine non si può fare altro che accettare la sua giustificazione.
Episodio cinque – Il ronin e la sposa
L’episodio più riuscito della serie è senza dubbio il quinto. Qui la narrazione scorre su due piani: da un lato abbiamo il racconto di un passato prossimo della protagonista e dall’altro la rappresentazione in stile teatro bunraku (le marionette giapponesi) che racconta la storia di un ronin, un samurai rimasto privo di un Signore e quindi non soggetto ad obblighi morali.
Se pensavamo di conoscere Mizu, adesso si mostra il suo vero momento fondativo e dobbiamo ricrederci. Finalmente la scopriamo a livello sentimentale con uno straordinario colpo di scena. Attraversiamo quella breccia che ci permette di assaporare brevemente l’amore che Mizu ha provato per un attimo e vediamo cosa la sua vita avrebbe potuto essere. Trova un’armonia fugace e, quando le viene brutalmente strappata di mano, la ferita è inguaribile. Alla fine di questo tragico arco la troviamo ancora più arrabbiata. Il dolore unico di essere amati e poi traditi ci porta non solo ad empatizzare, ma anche a fare il tifo per lei.
L’amore avvelenato dal tradimento genera una terribile creatura: l’Onryō. Si tratta di una delle figure folcloristiche giapponesi più famose, le cui prime apparizioni in letteratura risalgono già al VII secolo d.C., ma che troviamo ancora recentemente nel cinema (The Grudge e Kwaidan).
Le storie di fantasmi hanno sempre suscitato molto interesse nella cultura giapponese, arrivando ad ottenere un vero e proprio boom nel Periodo Edo, dove non solo erano spesso protagonisti di rappresentazioni di teatro kabuki, ma anche di raccolte diventate pietre miliari della letteratura (Il rovescio del broccato – Storie di fantasmi e cortigiane del Giappone e Racconti di pioggia e di luna).
Parlando di Onryō si fa riferimento a fantasmi vendicativi, che derivano da donne innamorate e indifese morte atrocemente. Il potere sinistro di questa creatura sta proprio nel dolore sopportato e accumulato in vita, che finalmente trova soddisfazione nel tormentare i vivi. Generalmente queste donne venivano uccise dall’uomo che amavano, amplificando l’odio e la disperazione. Tuttavia, non si fermavano alla vendetta contro chi aveva tolto loro la vita: la vera gratificazione arrivava tormentando anche chi era legato all’uomo coinvolto. L’Onryō, quindi, si addice perfettamente a Mizu, che è stata prima disprezzata e poi tradita dall’unico uomo a cui si fosse mai mostrata vulnerabile. Un atto di amore e di umanità che si rivela essere un errore e spazzerà via da lei ogni traccia di bontà e misericordia.
I personaggi
Mizu è un ottimo antieroe drammatico, ma i personaggi che incontra lungo il suo cammino sono altrettanto importanti e sapientemente costruiti. Da subito conosce Ringo, un cuoco senza mani a cui lo spettatore può solo che affezionarsi. È ingenuo, buono, in pace con sé stesso e determinato. Non rappresenta unicamente il comic relief della serie, ma è l’opposto di Mizu, il che lo rende il compagno perfetto. Ringo vuole seguirla nonostante i suoi tentativi di allontanarlo e la loro visione opposta della vita. Si arriva a scambi tra i due che non sono mai conflittuali, bensì permettono allo spettatore di approfondire ancora di più il carattere della protagonista e scoprire che in realtà è lui il saggio tra i due. Allevia i momenti di tensione e, a modo suo, riesce sempre a guardare le spalle di Mizu, che non è invincibile e soffre molto anche fisicamente, ma non si arrende mai.
Dal personaggio comico passiamo all’antagonista Fowler, un uomo brutale che vuole ferocemente conquistare il Paese tramite l’uso di armi da fuoco, quasi sconosciute in Giappone. È il motore della prima stagione, il colonizzatore che arriva illegalmente per abbattere lo shōgun.
La sua fisicità è la parte più interessante: completamente diverso dal tipico giapponese, rappresenta quei demoni da cui si volevano allontanare. Non è casuale la scelta dei capelli rossi, anzi, storicamente è molto intrigante. Nonostante nella serie venga affermato che si tratti di uomo irlandese, nel Giappone dell’epoca Edo si era diffuso – attraverso stampe che ritraevano la vita nella sopracitata Deshima – lo stereotipo per cui tutti gli olandesi avessero i capelli rossi. Per questo motivo spesso gli europei venivano definiti “diavoli rossi”.
I personaggi di Taigen e Akemi, poi, possono sembrare i classici sfortunati amanti, ma anche loro sono integrati nella storia, con le loro ambizioni ed emozioni. In Taigen troviamo un arco di redenzione ben fatto: cerca vendetta contro Mizu, che, tagliandogli i capelli, ha sottratto il suo onore e quindi la possibilità di sposare Akemi. Sarà proprio questa premessa a far sì che i due vivano insieme molte avventure pericolose, da cui quasi sempre usciranno malconci, che saranno la base di un forte sentimento di rispetto e quasi di amicizia.
La vera rivelazione, però, è Akemi. Da principessa capricciosa arriva a capire la realtà quotidiana di un impero rigido, andando ad esplorarne addirittura i bassifondi.
Sulla strada per la ricerca del suo Taigen, capisce che vuole essere una donna indipendente e che può essere forte a modo suo. Rappresenta l’emancipazione femminile forse anche più di Mizu, che fin da bambina è costretta a nascondersi dietro una falsa identità maschile. È comunque importante da contestualizzare: se al tempo la donna aveva poche possibilità, si spera e presuppone che adesso possa avere altre opzioni di emancipazione oltre a quella sessuale.
Attraverso Akemi e le donne che incontra e da cui viene comprata come prostituta, lo spettatore può avere uno spaccato di quella che era la condizione femminile nei quartieri di piacere. Questi, infatti, erano uno degli elementi che caratterizzavano l’epoca Tokugawa. Tutto era estremamente sorvegliato e meticolosamente organizzato; le case delle prostitute erano divise in ranghi e sottoposte a periodici controlli. Ma zone come Yoshiwara – il quartiere di piacere di Edo – erano anche luogo di artisti e avevano un ruolo importante nello sviluppo economico della città. Si può dire che fossero il cuore pulsante della cultura urbana sviluppata dalla proto-borghesia dei mercanti.
Nei quartieri, e più nello specifico nelle strutture, vigeva una rigida suddivisione in ranghi con al vertice le famose geisha: le intrattenitrici in cui Akemi si immedesima perfettamente. Infatti, così come la principessa, anche le geisha subivano un durissimo addestramento nelle arti, la musica e la poesia. Erano un vero e proprio investimento per i proprietari, per questo motivo, nonostante intrattenersi con una geisha potesse portare alla rovina un samurai o un ricco mercante, raramente riuscivano a pagare il proprio debito con il padrone di casa e ricomprarsi la libertà.
La narrazione
Con qualche nozione di cultura giapponese, la serie colpisce per la sua accuratezza, che non è assoluta, ma molto più precisa e articolata di tanti altri prodotti occidentali che vogliono parlare del periodo Edo. C’è anche qualche bel particolare che, conoscendolo, non può passare inosservato, come il tipico hakumakura – il poggiatesta giapponese per dormire senza rovinare l’acconciatura – usato da Mizu nel grandioso quinto episodio.
Tutto questo, però, non è abbastanza per gridare al capolavoro: i ritmi narrativi spesso sono veramente lenti e i dialoghi non convincono. Le coreografie dei combattimenti sono ottime, ma svantaggiate dall’animazione poco fluida e un CGI meccanico che spesso lascia a desiderare.
Purtroppo, le note dolenti non finiscono qui. Per il tema trattato e un numero di episodi così limitato, le scene sessuali sono troppe, lunghe ed esplicite molto più del necessario. La feticizzazione mette a disagio e il fatto che vengano inserite quasi sempre totalmente a caso diventa ancora più fuori luogo. È come se ci fosse il tentativo costante di ricordare che si tratta di un prodotto per adulti, perché si sa, ormai la violenza è argomento per tutti.
Questa prima stagione ha comunque ottenuto un grande successo. Lo studio Blue Spirit ha già annunciato l’arrivo della seconda parte e, con un finale che preannuncia un’ambientazione lontana, siamo curiosi di vedere come Mizu affronterà le nuove, e sicuramente più dure, difficoltà.
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