Il 2023 è iniziato con una brutta sorpresa per gli utenti di Netflix, l’ennesima: la piattaforma ha deciso di non continuare con le due ulteriori stagioni che erano previste per la serie 1899. A dare la notizia della cancellazione della serie sono stati gli stessi creatori, Baran Bo Odar e la compagna Jantje Friese, tramite l’account Instagram di lui: “Ci dispiace comunicarvi che 1899 non sarà rinnovato. Ci sarebbe tanto piaciuto concludere questo viaggio con una seconda e terza stagione, come avevamo fatto per Dark. Ma a volte le cose non vanno secondo i piani. Così è la vita. Sappiamo che questo deluderà milioni di fan. Ma vogliamo ringraziarvi con tutto il cuore per aver fatto parte di questa avventura. Vi vogliamo bene. Non dimenticatelo mai”.
Cosa si cela dietro questa notizia inattesa, e cosa significa per Netflix? Proviamo a sviscerare quanto accaduto.
Buona la seconda (collaborazione)?
Baran Bo Odar e Jantje Friese hanno iniziato a collaborare con Netflix con Dark, il primo Original della piattaforma in lingua tedesca. Un esercizio di genere ricco di misteri e colpi di scena, con un intreccio non facilissimo da seguire tramite vari viaggi nel tempo e una narrazione non lineare (tra addetti ai lavori era d’uopo ironizzare sul fatto che la lista di argomenti da non spoilerare nelle recensioni, inviata dall’ufficio stampa, fosse ancora più incomprensibile della serie stessa). Un progetto suddiviso in tre stagioni, scelta artistica dettata dalla convenzione della struttura in tre atti per il cinema, l’ambiente da cui vengono i due creatori. La stessa cosa era prevista per 1899, un titolo talmente atteso che i primi due episodi sono stati presentati in anteprima al prestigioso Toronto International Film Festival, che da alcuni anni ha un’apposita sezione Primetime per le produzioni seriali. Ma evidentemente la nuova serie non ha dato i risultati sperati, per quanto riguarda le aspettative della piattaforma.
L’algoritmo che non perdona
Nelle prime settimane di disponibilità, 1899 è rimasto saldamente nella Top 10 dei titoli più visti, solitamente sul podio insieme a Mercoledì e The Crown, sia a livello globale che individualmente in 90 paesi (ossia poco meno della metà dei territori complessivi in cui è disponibile la piattaforma). È l’unico dato concreto su cui possiamo basarci, dato che Netflix per politica aziendale non comunica mai esattamente quante persone hanno visto un determinato titolo. Presumibilmente, in base ai dati interni della società e al famoso algoritmo, lo show non ha attirato l’attenzione quanto Dark, e considerando che Netflix continua a spendere decisamente troppo in produzioni originali era forse inevitabile che una di queste, per risparmiare, si ritrovasse sacrificata nonostante l’apprezzamento generale. E non è la prima volta che accade, come ben sa chi seguiva con passione titoli come Sense8 o Le terrificanti avventure di Sabrina. Ma è una strategia che può risolvere i problemi della piattaforma?
Perché il “calo”?
Supponendo che sia vero che la serie fosse meno seguita del suo predecessore, almeno in base ai dati di Netflix che in teoria tengono anche conto di quanto il singolo utente abbia guardato fino alla fine (preferibilmente in un’unica volta o quasi), a cosa è dovuto? Sarà forse colpa della serie stessa? Al netto dell’apprezzamento generale, verificabile tramite il suo posizionamento nelle Top 10 già menzionate, non è escluso – anzi, sui social era possibile leggere commenti in tal senso – che i fan di Dark, avvicinatisi alla nuova fatica dei suoi creatori, non fossero del tutto soddisfatti da un mistero che si faceva notare soprattutto per le sue qualità estetiche mastodontiche (per le riprese è stato costruito a Berlino un apposito teatro di posa che usa tecnologie simili a quelle di The Mandalorian, con sfondi virtuali). Possibile, anche, che la qualità più “internazionale” dello show, dopo la componente più strettamente tedesca della serie precedente, abbia scoraggiato alcuni, in quanto tendenzialmente indice di una volontà di raggiungere un bacino d’utenza più ampio, sacrificando forse le particolarità della poetica degli autori.
Nuove abitudini
Altrettanto possibile, però, che a cambiare sia stato un altro elemento: come guardiamo queste serie. Se fino al 2019 il bingewatching era il default, salvo rare eccezioni legate a serie di cui Netflix o Prime avevano solo i diritti internazionali e quindi seguivano la scaletta della messa in onda lineare negli USA, da circa tre anni non è più così, grazie ad altre piattaforme che hanno reso nuovamente normale la formula settimanale, una formula che solo Netflix si ostina a non voler provare per i suoi Originals. Non c’è più la smania di vedere tutto subito nel weekend d’uscita, salvo per titoli forti già collaudati e/o per la paura di incappare in spoiler (ma il secondo fattore in questo caso non dovrebbe incidere, dato che non è facile riassumere in due righe i colpi di scena delle serie del duo Odar-Friese).
È normale, ormai, che la gente se la prenda comoda, soprattutto se, come spesso accade su Netflix, la serie non è di quelle che sono state pompate a dismisura in sede di marketing come uno dei pochi eventi davvero imperdibili sulla piattaforma. Ed è un sistema che, per come ragiona l’azienda californiana, sta mettendo in evidenza le crepe nel muro di infallibilità che il gigante dello streaming si era costruito attorno dal 2013.
Netflix ha 1899 problemi
Per poco più di mezzo decennio Netflix ha dominato praticamente incontrastato il mercato dello streaming a pagamento, spendendo uno sproposito con la consapevolezza che i nuovi abbonati avrebbero ripagato lo sforzo. Ora non è più così: al netto dell’incremento di utenti nei primi mesi della pandemia, la concorrenza – Disney+, Apple TV+, Amazon Prime Video, Paramount+, e chi più ne ha più ne metta a seconda dei singoli paesi – è agguerrita, e dotata di un vantaggio che Netflix non ha, ossia far parte di aziende che hanno altre entrate oltre agli abbonamenti. Le vecchie strategie vanno riviste, perché la reputazione del servizio sta rapidamente calando, tra cancellazioni ritenute prive di senso e altre decisioni come quella, annunciata alcuni mesi fa come misura concreta dopo anni di voci di corridoio, di impedire alle persone di condividere l’account con chi non vive effettivamente sotto lo stesso tetto.
Innanzitutto andrebbero cambiate due cose: il marketing dell’azienda deve dare la giusta visibilità a tutti i titoli, non solo quella mezza dozzina di uscite capaci di trascendere le insidie dell’algoritmo che riesce a seppellire veri gioielli a cadenza quasi settimanale; e forse sarebbe il caso di aspettare un po’ più di un mese e mezzo prima di decidere se una serie, soprattutto se complessa (e con la complessità come elemento essenziale del suo appeal), ha fatto breccia in un numero sufficiente di cuori.