De Andrè cantava “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”: dalle piccole cose, nasce la vita. Come quella che sboccia e fiorisce dai cadaveri in decomposizione disseminati nelle vie imputridite di una città del futuro. In un mondo dominato da paura e odio verso il diverso, Wild Strawberry si configura come una riflessione amara e struggente su quel che – forse – che ci attende, dimostrando tuttavia quanto la speranza riesca a germogliare anche tra le crepe del disastro.
Ambientato in una Tokyo post-apocalittica, invasa da una vegetazione mutante, soffocata da profonde disuguaglianze sociali, il manga d’esordio di Ire Yonemoto – serializzato su Shonen Jump+ e pubblicato in Italia da Star Comics – si configura quale intrigante denuncia sociale. Qui, l’orrore affonda le radici tra le rovine della civiltà, e l’umanità si rivela fragile, corrotta, ma anche capace di atti di profondo sacrificio.
Lei…è stata infettata.

Kayano e Kingo sono due orfani legati da un affetto profondo, inseparabili come rami di uno stesso ciliegio. Da anni aspettano, nella speranza di essere adottati, sognando un futuro semplice: poter andare in un family restaurant, chiamare qualcuno “mamma” e “papà”, sentirsi finalmente parte di una famiglia.
Un giorno, finalmente, il loro desiderio sembra avverarsi. Entrambi i bambini vengono accolti in casa da una coppia apparentemente amorevole. Inizialmente, la loro nuova vita sembra procedere nella giusta direzione, ma l’illusione dura poco e la realtà si rivela in tutta la sua mostruosa spietatezza. I neo-genitori adottivi manifestano la loro vera identità, schiudendo i variopinti petali: non sono umani, ma creature spietate pronte a nutrirsi dei due bambini. Spacciati e terrorizzati, i fratelli stanno per abbandonare questo mondo, digiuni d’amore, quando dal corpicino di Kayano spunta un enorme fiore che gli si para dinanzi, ergendosi in loro difesa. I mostri sono stati uccisi, ma la verità sulla condizione di Kayano scombussola Kingo, che non può far altro che chiedersi:
Kayano è stata infettata, ma allora perché non si è trasformata in un Jinka?
Il senso di sacrificio

È l’inizio di un racconto che intreccia horror, indissolubili legami famigliari e una profonda critica nei confronti di una società cieca, indifferente, rispetto ai tragici mutamenti climatici. Una storia che ha avuto inizio 36 anni prima, quando un gigantesco fiore – il Mother Jinka – è sbocciato sulla Tokyo Tower, dando il via a un’invasione silenziosa. Il polline da essa diffuso infetta gli esseri umani, trasformandoli in Jinka, ibridi umano-vegetali dalla forma mostruosa. Il fenomeno, che un po’ richiama l’ansia vissuta durante la pandemia da COVID-19, ha generato paura e sospetto tra gli esseri umani. Tale scelta narrativa ha consentivo all’autore di delineare una società segnata da profondi disuguaglianze: i “ricchi”, difatti, possono accedere a un vaccino che rallenta l’infezione, mentre i più poveri vivono nel costante timore di “sbocciare” e venire giustiziati dalla Kasotai, una squadra armata incaricata di eliminare ogni soggetto infetto.
In questo scenario oltremodo ostile, Kayano e Kingo si trovano soli contro il mondo. Tuttavia la giovane Kayano, a differenza degli altri infetti, riesce a mantenere il controllo sul parassita dentro di sé. Questa capacità la rende un’anomalia, tanto affascinante quanto pericolosa agli occhi della Kasotai. Difatti, quando Kingo tenta di proteggerla da questi ultimi, viene ucciso dal comandante della squadra. In un atto estremo, Kayano trasferisce il proprio Jinka nel corpo del fratello, fondendosi con lui per salvarlo: sono le mostruose radici del Jinka, ora, a tenerlo in vita.
Da questo momento, Kingo sperimenta un nuovo dolore: non è riuscito a salvare la sorellina, oltretutto è stata lei a sacrificarsi affinché lui potesse vivere. Il giovane è dunque determinato a trovare una cura per restituirle un corpo e una vita autonoma. Riuscirà Kingo a riportare in vita Kayano?
Un segno che destabilizza

A nostro parere, uno degli elementi più riusciti del manga è senza dubbio il comparto grafico. Yonemoto fonde con maestria estetica d’impatto e narrazione avvincente, complici tavole destabilizzanti e splash page che racchiudono tutto l’orrore e il disagio vissuto dai protagonisti. Quel senso di impotenza che emerge tra un panel e l’altro, tra esplosioni di sangue e momenti di struggente malinconia. Il segno del mangaka è realistico, ricco di dettagli, linee sottili e ravvicinate, palesando uno stile che omaggia in un certo qual modo grandi autori come Yuji Kaku (Hell’s Paradise), senza rinunciare all’originalità.
Crisi ambientale, la natura che si ribella, un virus che uccide gli umani, un vaccino solo per i ricchi, l’emarginazione degli infetti. L’autore mixa tutti questi elementi, affrontando tematiche attuali ma incastonandole in un contesto distopico, spietato. Qui, la lotta per la sopravvivenza dei due protagonisti diventa anche una struggente testimonianza d’amore e di resistenza di una famiglia non-ordinaria, a riprova che non siano necessari legami di sangue per sentirsi davvero fratelli.
“Questa dinamica mi è familiare”…

E’ innegabile che l’opera di Yonemoto sia intrisa di riferimenti riconoscibili, tanto da riflettersi nella caratterizzazione dei personaggi, nella nascita dei poteri, nella centralità della violenza e nella presenza di forze armate oppressive. Kingo deve salvare sua sorella a tutti i costi, trovare una cura per farla tornare umana, proprio come Tanjiro in Demon Slayer. La metamorfosi e il senso di vendetta ricordano i protagonisti di Tokyo Ghoul e Fire Punch, mentre la lotta del protagonista che in sé custodisce il seme del male – e nemico – non può che ricordarci Kaiju No. 8.
L’ambientazione decadente, il virus infettante, la divisione in zone sicure e meno sicure, la ricerca di una “cura”. Tutto richia velatamente una serie molto chiacchierata nell’ultimo periodo: The Last of Us. Il mangaka omaggia l’opera – più o meno consapevolmente – sia sul piano visivo, attraverso strade inghiottite dal verde e cadaveri di infetti lasciati lì a morire, sia su quello tematico, nel rapporto protettivo tra i protagonisti e nella figura di Kayano, anomalia e potenziale chiave per la salvezza del genere umano.
Tuttavia, per tutti questi motivi, Wild Strawberry fatica a distinguersi nel mare di opere simili. I personaggi principali risultano ancorati a schemi narrativi consolidati e molte dinamiche appaiono già esplorate altrove. Avremmo apprezzato di certo una scelta narrativa differente per il personaggio di Kingo e alcuni membri del kasotai, costretti – per l’ennesima volta – a far sfoggio di incredibili poteri, anziché abbracciare la loro natura umana e affrontare i Jinka con le loro sole forze. Le premesse narrative, difatti, sembrerebbero promettenti, soprattutto per quanto concernono i risvolti socio-politici della distopia ecologica: speriamo che l’autore non cada nella trappola del già-visto.
Conclusioni
Wild Strawberry è un’opera che incuriosisce più di quanto sorprenda, compensando con un comparto visivo potente, un’ambientazione carica di suggestione e temi attuali che ne amplificano la risonanza emotiva.
Per chi cerca una lettura dinamica, visivamente d’impatto e attraversata da sottotesti sociali, rappresenta una proposta interessante. Ma per chi spera in una rivoluzione narrativa, potrebbe risultare acerba: Wild Strawberry è ancora un bocciolo, affascinante ma non del tutto sbocciato.
The Good
- Stile e tratto dettagliato
The Bad
- Casca nei cliché del genere da metà volume
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Voto ScreenWorld