L’opera d’esordio di Montagnoli è un racconto intenso e doloroso che mette in scena il male di vivere di un’intera generazione. In poco più di ventiquattr’ore seguiamo Marta, Susanna e Gianni – tre giovani ventenni alle prese con un quotidiano fatto di vuoti e silenzi – e ci immergiamo in una storia in cui la solitudine, il disagio esistenziale, il senso d’inadeguatezza e la ricerca di una qualche connessione umana permeano ogni pagina.
Montagnoli osserva questi giorni qualunque con sguardo lucido e partecipe, dipingendo (letteralmente) una realtà sospesa in cui l’angoscia strisciante convive con un disperato bisogno di sentirsi meno soli.
Già, ma chi non è solo in questo mondo di pressioni e imperfezioni?
Solitudini condivise

Marta, Susanna e Gianni si barcamenano tra giornate sempre uguali. Oggi, ieri e domani sono tutti uguali, come il celebre orologio rotto che segna due volte al giorno l’ora giusta.
Il tempo scorre, ma il loro vissuto non cambia mai davvero. Può l’angoscia e l’ansia di dover prendere, per forza, una direzione a smuovere il dramma dei protagonisti? Sanno di essere impreparati ad affrontare il futuro: hanno trascorso gli anni precedenti senza prendere decisioni, aspettando la sera per dormire e il giorno per porsi le stesse domande.
A che serve vivere giorni senza mordente? Un pensiero agghiacciante nella sua semplicità, ma soprattutto comune. I personaggi agiscono per inerzia, intrappolati in un presente perpetuo che somiglia a un limbo. In questo deserto di senso, l’unico appiglio è l’amicizia che li lega. I tre passano il tempo insieme, convivendo su una panchina, condividendo il silenzio piuttosto che le idee, come le tavole vuote in una griglia da fumetto.
Il telegiornale in sottofondo si mischia a un vecchio film in TV; nulla di tutto ciò è rassicurante, ma almeno Marta, Susanna e Gianni sono nella stessa stanza, fianco a fianco, a farsi compagnia. Non sono soli. Questo patto tacito di reciproca presenza è ciò che li tiene a galla: una promessa quotidiana di non abbandonarsi l’un l’altro alla deriva. La compagnia diventa quindi l’obiettivo primario – per i personaggi così come per l’autrice e i lettori stessi, un tenue filo che li lega e al contempo un antidoto contro il vuoto.
Il pericolo del quotidiano
Nel raccontare questa condizione, Montagnoli adotta un tono asciutto e veritiero, quasi verista: non c’è traccia di romanticizzazione consolatoria né di facile ironia a stemperare la sofferenza ordinaria di questi ragazzi. La loro è una disperazione quotidiana, banale nella ripetitività dei gesti ma proprio per questo universale e tagliente.
Chiunque abbia conosciuto la fatica di trovare il proprio posto nel mondo potrà riconoscersi, almeno in parte, in queste tre solitudini che provano disperatamente a condividersi a vicenda. La vicenda narrata in Un giorno e mezzo circa si inserisce nella tradizione del realismo malinconico e minimalista: un po’ come il Giardino delle Vergini Suicide, senza che il veleno abbia conseguenze tanto gravi.
Come in quelle opere, anche qui accadono piccole cose in superficie: una passeggiata al parco, un dialogo frammentario, un pomeriggio qualsiasi trascorso a far nulla, mentre sottotraccia si muovono incertezza, tristezza e solitudine costanti. Montagnoli cita con ammirazione autori come Kafka, Hemingway, Kerouac, e in effetti nel fumetto si respira quella stessa inquietudine esistenziale, quella sensazione che il quotidiano possa diventare una trappola dell’anima.
Eppure, malgrado il quadro cupo, non si può ignorare la delicatezza con cui l’autrice tratteggia i suoi personaggi: c’è empatia nel modo in cui vengono mostrati nei loro momenti più vulnerabili, c’è rispetto nel silenzio che spesso avvolge i loro dialoghi. È come se la storia dicesse: so che fa male, ma non sei solo a sentirlo.
Come se quella inerzia soffocante l’abbia sentita anche lei e, in questo, Gaia Montagnoli è più vicina a Sofia Coppola di quanto si possa pensare.
Acquerelli claustrofobici

Dal punto di vista stilistico e visivo, Un giorno e mezzo circa colpisce per la sua resa espressiva, capace di amplificare il senso di disagio dei protagonisti. I disegni di Gaia Montagnoli utilizzano toni pastello lievi e desaturati, grazie a un delicato uso dell’acquerello. Questa palette cromatica tenue avvolge la storia in un’atmosfera malinconica, quasi ovattata, che contrasta ironicamente con il peso gravoso dei temi trattati.
L’angoscia esistenziale di Marta, Susanna e Gianni trasuda da ogni pagina anche attraverso il colore: i cieli pallidi, i prati sbiaditi, gli interni in penombra comunicano un mondo che ha perso vivacità, come se la saturazione della vita reale fosse stata ridotta al minimo per far emergere una cappa di oppressione. In effetti, l’uso del colore qui trasmette tutta l’angoscia dei protagonisti, inchiodati anche visivamente in spazi troppo stretti e ingrigiti.
Ma è soprattutto l’impaginazione a dare corpo al senso di soffocamento. Le vignette stesse sembrano ritagliate al punto da risultare anguste: riquadri piccoli, stretti, a volte affollati, che non accolgono davvero i personaggi ma li costringono in pose contratte.
Ogni momento di respiro è negato: lo spazio bianco intorno ai disegni è ridotto al minimo, le sequenze di immagini danno l’impressione di incalzare senza tregua, costruendo un sistema claustrofobico che inchioda i protagonisti e il lettore insieme a loro.
Ritratto di solitudine
Questo layout volutamente opprimente sottolinea visivamente la palude emotiva in cui i tre amici sono intrappolati, la staticità straziante delle loro vite bloccate. In certe pagine sembra quasi di sentirla, la mancanza d’aria: la composizione grafica esclude ogni possibile momento di sollievo, concedendo solo affanno e tensione continua. Anche sul piano narrativo e testuale, Montagnoli sceglie l’essenzialità radicale. La storia infatti oscilla costantemente tra lunghi silenzi e poche parole, scarne ma significative.
I dialoghi sono ridotti al minimo, spesso frammentati, interrotti, lasciati a metà, frasi sospese che risuonano nel vuoto. Ogni battuta pronunciata dai personaggi sembra pesare il doppio, proprio perché emerge da un oceano di mutismo. Questa frammentazione del linguaggio non è un espediente stilistico fine a sé stesso, ma rispecchia con sincerità l’incapacità dei protagonisti di esprimere a parole il loro disagio interiore. Viene in mente il detto attribuito a Hemingway, secondo cui il vero significato di una storia sta sotto la superficie, come un iceberg: qui il non detto conta quanto (se non più) del detto.
Il risultato è una lettura cupa, a tratti spiazzante, in cui il lettore è chiamato a riempire i silenzi con la propria sensibilità. L’assenza di spiegazioni facili o di monologhi chiarificatori ci lascia soli con le immagini e poche frasi essenziali, e in questo modo riusciamo quasi a sentire sulla pelle quel vuoto, quella sensazione di smarrimento che attanaglia Marta, Susanna e Gianni.
È una scelta narrativa coraggiosa e coerente: il disagio non viene solo raccontato, ma è fatto vivere direttamente a chi legge.
Squarci di straordinario

A interrompere la monotonia opprimente del quotidiano, Montagnoli inserisce a sorpresa dei momenti visionari, delle intrusioni simboliche che dilatano le crepe nella realtà. All’improvviso, infatti, compaiono squarci di straordinario nel racconto: oggetti qualunque che si animano, un drago minaccioso che spalanca le fauci nell’ombra di una stanza, un unicorno candido e improbabile che fa capolino come in un sogno a occhi aperti, persino una figura sacra (una Madonna col Bambino) che appare tra le pagine.
Queste visioni surreali punteggiano la storia come sogni inespressi, creando un potente contrasto con la grigia normalità che li circonda. Ma non si tratta di divagazioni fini a sé stesse: sono metafore visive del tumulto interiore dei personaggi, simboli che danno forma concreta alle loro paure, speranze e desideri inespressi. Il drago può essere letto come l’incarnazione dell’angoscia che minaccia di divorare ogni tentativo di reazione; l’unicorno ricorda la fragile illusione di una via di fuga, di una purezza o felicità forse irraggiungibile; la Madonna col Bambino evoca il bisogno di conforto, di un abbraccio materno o spirituale in un mondo altrimenti privo di rassicurazioni.
Sono immagini che colpiscono per la loro poeticità e che aggiungono livelli di lettura al fumetto, senza mai rompere l’equilibrio narrativo. Emblematica è la figura di Susanna, forse la più combattiva del trio, che a un certo punto del racconto, nel pieno di una crisi dell’amica, si lancia in una corsa disperata immaginandosi una cavaliera al galoppo.
In quell’istante la vediamo trasformarsi, almeno ai propri occhi: da ragazza comune con giacca e borsa del lavoro, Susanna si tramuta in un paladino impavido, lanciato a rotta di collo per raggiungere Marta e strapparla dai suoi demoni interiori. È una sequenza breve ma di grande impatto simbolico, in cui la banalità del quotidiano si trasfigura all’improvviso in epica: l’atto di un’amica che corre a confortarne un’altra viene elevato a cavalleresca impresa di salvataggio, con la certezza che il patriarcato può perdere anche e soprattutto rovesciando i ruoli.
Lottare per non andare alla deriva
Questo momento getta una luce nuova su Susanna (e su tutti loro): anche nel pieno del proprio smarrimento, ciascuno dei tre amici è disposto a vestire i panni dell’eroe o eroina per l’altro, se necessario. Del resto, a ben guardare, Marta, Susanna e Gianni sono delineati come improbabili protagonisti di un poema cavalleresco moderno. Non hanno spade né armature scintillanti, ma combattono ogni giorno una battaglia silenziosa contro il vuoto e la disillusione.
Ognuno di loro è al tempo stesso salvato e salvatore: in certi momenti uno soccorre l’altro, e a parti invertite si sostengono a vicenda quando le onde dell’angoscia rischiano di travolgerli. Nessuno di loro sa veramente dove stia andando o come uscirne, non c’è una quest precisa, nessun Graal da conquistare che risolva magicamente il loro disagio , però sanno che possono condividere fra loro la propria solitudine e il proprio disperato bisogno d’amore.
In questa reciproca condivisione, pur goffa e precaria, risiede una forma di eroismo quotidiano: sono tre ragazzi qualunque, ridicoli, affannati, quasi teneri nella loro ostinazione, eppure non accennano minimamente a desistere. Continuano a vivere un giorno dopo l’altro, aggrappandosi a quel poco di significato che riescono a trovare l’uno nell’altro. Ed è proprio questa loro ostinazione , questo non arrendersi anche quando tutto sembra inutile, a rendere la loro storia meritevole di essere ascoltata. In tale ottica, il “circa” nel titolo assume un significato simbolico importante.
Quel circa suggerisce fin dal principio che il tempo in questa storia non è esatto, non è definito al secondo: c’è sempre un margine di incertezza, un piccolo scarto rispetto alla misura rigida di un giorno qualunque. È come una crepa nel muro della routine, una micro-frattura attraverso cui può filtrare qualcosa di imprevisto. Come la luce dalle crepe di Leonard Cohen, altro respiro ben visibile nell’opera.
Solo che invece del Chelsea Hotel, c’è una panchina in copertina.
Nella dimensione soffocante in cui vivono i protagonisti, quel “circa” rappresenta sia l’oblio che la speranza: da un lato il tempo sfuma e i giorni perdono contorni (rischiando di scivolare nell’indistinto, nel nulla), dall’altro proprio in quello spazio indefinito può insinuarsi la possibilità di un cambiamento, di uno squarcio luminoso nel grigiore. In un racconto dove l’oggi tende a ripetersi identico al ieri, quell’approssimazione temporale è quasi un gesto di ribellione, un’indicazione che qualcosa potrebbe ancora succedere, che i giochi non sono del tutto chiusi.
Circa un giorno e mezzo: forse basterà, forse no, ma intanto lascia aperto uno spiraglio, un varco sottile attraverso cui l’extra-ordinario può irrompere.
Un graffio che lascia il segno

In definitiva, Un giorno e mezzo circa è un viaggio emotivo che lascia addosso a chi legge un piccolo graffio nell’anima, di quelli che all’inizio pizzicano e bruciano, e poi restano a ricordarci che qualcosa ci ha toccato davvero. È una storia delicata e spietata al tempo stesso, che tratteggia con poesia e crudezza la condizione di tanti giovani sospesi nel vuoto, senza scadere mai nel patetico.
Gaia Montagnoli, con il suo stile, riesce a coinvolgere il lettore in una riflessione sincera sulla solitudine, sull’incomunicabilità e sull’importanza di aggrapparsi agli affetti anche quando tutto il resto perde senso. La lettura di questo fumetto non offre facili consolazioni né risposte definitive, anzi, ci costringe a sostare nell’inquietudine, a fare i conti con quel disagio che spesso preferiremmo ignorare.
Ma dopotutto, non è forse proprio questo uno dei poteri più grandi della narrativa? Mostrarci che le nostre paure e tristezze non sono un fatto isolato, che altri le condividono, e che persino nel buio di una giornata uguale a tutte le altre può accendersi una scintilla di autentica empatia.
Conclusioni
Un'opera che parla di giovani, senza pietismo, senza perdersi nei cliché di una generazione dimenticata, ferma su una panchina piena di giorni tutti uguali.
I personaggi
- Il racconto di una generazione
- L'uso dei colori
Alcuni dialoghi risultano ridondanti
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Voto Screenworld