Kinji Ninomiya aveva proprio tutto: soldi facili, vista panoramica e nessuna attitudine al lavoro. Gongola, prendendosi gioco dei salary-men, dall’alto della sua suite, vivendo di rendita. Tuttavia, si sa: non dire mai di essere felice, che la Sfortuna ci sente benissimo. E Kinji non ha saputo godere in silenzio della propria condizione di NEET, tant’è che – un giorno – un portale si è aperto sotto i suoi piedi e l’ha scaraventato in una realtà alternativa, un mondo dove è costretto a “lavorare come un mulo”. Qualcuno ne gioirebbe.

In The Dungeon of Black Company, manga isekai di Yasumura targato SaldaPress, il cammino dell’eroe non è un epico viaggio all’insegna di valori puri, ma un tragitto impervio che fa luce su precarietà e sfruttamento, il tutto attraverso una satira feroce, gag esilaranti e una curiosa simpatia per le esagerazioni tipiche del genere (sì, in tal caso di tratta di genere isekai).

Diversamente NEET

The dungeon of black company, saldaPress © amazon.it
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Kinji Ninomiya, NEET di professione, non studia, non lavora e non ha intenzione di formarsi come individuo, eppure è ricco sfondato. L’attitudine alla pigrizia lo ha spinto a investire i suoi risparmi immobili, creandosi un’entrata notevole. In poche parole: vive di rendita, ostentando il proprio benessere e passeggiando in mutande per il proprio attico. La sua filosofia? Non lavorare mai, non sporcarsi le mani, non fare sforzi eccessivi.

Eppure, non è il primo, né l’ultimo, poiché questo connubio “lusso e ozio” descrive nel dettaglio un fenomeno sociale ben noto in Giappone. Giovani che, arrendendosi all’intransigenza del mercato del lavoro, si ritirano in casa, vivendo di rendita o di aiuti statali, a casa dei propri genitori. Tuttavia, Yasumura non vuole concentrarsi su questo tragico aspetto, e delinea un prototipo di NEET nuovo, originale, meno in collera col mondo. Kinji è pigro, ma lungimirante, un po’ manipolatore, affamato di danaro, malgrado resti un emblema dello stallo esistenziale di un’intera generazione. Giovani che rifiutano l’impiego tradizionale, considerando la vita aziendale una vera e propria schiavitù (mentale e fisica).

E così, mentre Kinji fa avanti-indietro per la sua suite, commiserando le vite degli abitanti della città, smette di gongolare. Cade rovinosamente in un portale apparso dal nulla, poggiando il suo regale deretano sulla terra umida appartenente ad un mondo parallelo: Amuria. Qui, un gruppetto di creature semi-umane lo accoglie, ma non gli porge l’altra guancia, né gli offre aiuto per alzarsi. Sono ostili, e il NEET in pochi secondi si rende conto di essere in serissimi guai.

Non avrei mai immaginato che le mie mani potessero ridursi in questo stato orribile.

Mesi dopo, ritroviamo un Kinji cambiato, intento a picconare demonite nelle miniere, in una simil catena di montaggio, tra sangue e sudore. Pian piano, il giovane neet scopre cosa significhi lavorare per quella che viene definita la “Black Company”: turni infiniti, mansioni pericolose, retribuzione al minimo sindacale, nessuna tutela. Tuttavia, il termine burakku kigyō (“impresa nera”) non è stato coniato da Yasumura: indica davvero, in Giappone, quelle società che fanno dell’abuso contrattuale (e psicologico) la norma quotidiana. Ed è così che la minaccia del dungeon, l’impiego da operaio e la infinitesimale tutela per il lavoratore fanno empatizzare il lettore con il povero Kinji. Quest’ultimo, difatti, il possibile (e l’impossibile) pure di arricchirsi e tornare a poltrire.

Patria, lavoro, sacrificio

The dungeon of black company, saldaPress © amazon.it
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Tradizionalmente, il dungeon rappresenta il luogo in cui l’eroe guadagna livelli, bottini e fama. Qui, al contrario, più scendi giù e recuperi pietre preziose, più si arricchisce il datore di lavoro, il boss. In tal senso, Yasumura sfrutta questa dinamica per analizzare il sistema delle “keiretsu”, imprese giapponesi in cui le gerarchie sono complesse e gli avanzamenti di carriera avvenivano, almeno in teoria, con l’anzianità. Ma in The Dungeon of Black Company l’ascensore sociale funziona al contrario: da non-lavoratore privilegiato, il nostro protagonista precipita, occupando il gradino più basso.

Le riunioni motivazionali in cui i superiori di Kinji promettono un “futuro radioso” ai dipendenti ricordano gli slogan delle compagnie nipponiche che spingono i dipendenti oltre il limite. Ogni volta che Kinji escogita la via più veloce per arricchirsi – dal contrabbando di cristalli magici all’intermediazione truffaldina con gli orchi sindacalisti – lo spettatore ride, ma è una triste risata pregna di consapevolezza. Nel nostro mondo, quello reale, accade spesso che uomini in giacca e cravatta, avidi di vita e denaro, sfruttino stagisti e non per i propri interessi.

Tuttavia, come accennato, Kinji non ha intenzione di arrendersi: lui vuole tornare ad essere un NEET, persino ad Amuria. Pertanto, procede col trovare escamotage originali e creative, forte di una personalità un po’ cinica, arrogante e modi di fare da manipolatore. Il nostro protagonista non combatte per la giustizia, bensì per ripristinare il suo diritto a oziare, e la sua sete di riscatto fa sorridere il lettore che – come lui – vorrebbe sottrarsi a un meccanismo lavorativo schiavista.

kigyō senshi, guerriero aziendale

The dungeon of black company, saldaPress © amazon.it
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In The Dungeon of Black Company, Kinji si circonda di personaggi che sono un po’ uno specchio deformante del capitalismo giapponese. La draconessa e pozzo senza-fondo incarna un po’ la pulsione a colmare il vuoto esistenziale con l’acquisto compulsivo. Wanibe, di contro, è la risorsa un po’ tonta, bullizzata da compagni e superiori, mentre Rim, l’enorme formica guerriera la cui forza bruta rimane inutilizzata per via di clausole contrattuali, rappresenta l’impiegato iper-qualificato relegato a mansioni banali.

L’umorismo della serie, costituito da smorfie esasperate e gag, agisce quale valvola di sfogo: trasforma in risata una realtà altrimenti soffocante. Eppure, dietro ogni battuta si avverte l’eco di una verità amara. In Giappone il 40 % dei giovani teme un futuro di straordinari non pagati e il Paese continua a registrare uno dei peggiori tassi di suicidi da superlavoro del G7. Così, mentre Kinji architetta truffe per sottrarsi al giogo aziendale, il lettore percepisce la tensione fra leggerezza e inquietudine.

Ma questa cultura atta a subordinare l’individuo alla collettività affonda le radici nell’antichità. Termini come giri (dovere morale) e ganbaru (tenacia a oltranza) hanno alimentato il mito del posto fisso in cambio di dedizione assoluta. Nel tempo, il meccanismo è collassato su se stesso: nomikai (incontri aziendali) obbligatori, ferie non godute, l’aspettare che il capo spenga per ultimo la luce la luce dell’ufficio, inemuri (dormire in ufficio o in metropolitana). L’archetipo finale è il kigyō senshi, il “guerriero aziendale” pronto a sacrificare vita privata e salute. Spesso, tuttavia, il conto da pagare è salato e porta il nome di karōshi, la morte per troppo lavoro che si manifesta con infarti, ictus o suicidi. Sfidiamo chiunque a non condividere il modus operandi di Kinji!

Il NEET, le black companies e la realtà socio‑economica

The dungeon of black company, saldaPress © amazon.it
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Ma cosa s’intende davvero per NEET? Approfondire il personaggio di Kinji e comprendere la sua figura significa considerare l’incertezza lavorativa post‑bolla economica nipponica. Dagli anni 90, la promessa del “posto a vita” si è sgretolata e la precarietà ha spinto molti giovani a ritirarsi a vita privata, lontano dalle selezioni massacranti (universitarie per lo più), rifugiandosi in fantasie di rendita. Difatti, in Giappone, il termine black company si riferisce ad aziende con condizioni di lavoro estremamente abusive, soprattutto in ambito d’ufficio. Diffusosi nei primi anni 2000, tali realtà assumono spesso giovani dipendenti, costringendoli a lunghi turni senza straordinari pagati, sottoponendoli ad abusi verbali e power harassment (mobbing), ma anche dimettersi è un incubo poiché il recesso dal contratto viene scoraggiato con minacce di discredito professionale.

“Fa ridere, ma fa anche riflettere”

The dungeon of black company, saldaPress © amazon.it
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Dunque, The Dungeon of Black Company fa quel che promette: intrattiene, ma si propone anche quale satira del mondo del lavoro, mascherata da commedia fantasy. Sul piano grafico, Yasumura adotta uno stile pulito e leggibile, particolarmente efficace nelle espressioni facciali e nelle gag slapstick. Tuttavia, il design di molti personaggi e creature pecca un po’ di anonimato. Tuttavia, l’autore si riscatta nella regia delle scene d’azione che, seppur sporadiche, sono dinamiche e ben coreografate.

Oltre l’intrattenimento, però, l’opera denuncia con ironia le distorsioni di un sistema lavorativo basato sullo sfruttamento. Yasumura non esalta né il fannullone Kinji né il tossico culto del lavoro, ma ne mostra i limiti estremi, generati da un contesto competitivo che promuove la guerra tra poveri. Il manga diverte, provoca, esortando il lettore a riflettere sul valore del tempo, della salute e del successo. Cosa faresti se fossi costretto a lavorare in condizioni che rasentano la schiavitù? Sei proprio sicuro di non essere già in una situazione simile?

Pensaci!

Conclusioni

7.0 Intrattenente

The Dungeon of Black Company è una commedia fantasy che diverte, ma colpisce anche per la sua satira del mondo del lavoro. Yasumura utilizza un tratto grafico chiaro e vivace, perfetto per le gag visive, anche se alcuni personaggi risultano poco memorabili. Le scene d’azione, seppur rare, sono dinamiche e ben orchestrate. Oltre l’umorismo, il manga denuncia le storture di un sistema lavorativo fondato sullo sfruttamento, senza glorificare né l’ozio del protagonista Kinji né il culto tossico della produttività. Con ironia e intelligenza, invita a riflettere sul valore del tempo, sul significato del successo e sull’importanza di un equilibrio tra lavoro e vita personale.

The Good
  1. Critica alle aziende giapponesi
  2. Satira: intrattiene, ma fa riflettere
  3. Tratto espressivo
The Bad
  1. Il segno si perde un po' in alcune scene troppo abbozzate
  • Voto ScreenWorld 7
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Napoletana, classe 92, nerd before it was cool: da sempre, da prima che fosse socialmente accettato. Dopo il diploma al Liceo Classico, una breve ma significativa tappa all'Accademia di Belle Arti mi ha aperto gli occhi sul futuro: letteratura, arte e manga, compagni di una vita ed elementi salvifici. Iscritta a Lettere Moderne, ho studiato e lavorato per poi approdare su CPOP.IT e scoprire il dietro-le-quinte del mondo dell'editoria. Dal 2025 scrivo per LaTestata e mi sono unita al team di ScreenWorld in qualità di Capo Redattrice Anime e Manga: la chiusura di un cerchio e il coronamento di un sogno.