Androidi, divinità aliene, universi alternativi e droghe dai poteri rivelatori. Sono questi alcuni dei più noti assiomi narrativi di Philip K. Dick, maestro della narrativa sci-fi americana. Poco apprezzato in vita, Dick è divenuto un autore cult in seguito, quando venne finalmente riconosciuta la sua lisergica capacità di anticipare i tempi, osservando lucidamente la sua contemporaneità. Una visione critica nei confronti della società americana, inizialmente poco gradita, ma in seguito rivalutato, divenendo uno dei più sfruttati ispiratori della fantascienza hollywoodiana.
Da Blade Runner a Screamer, da Paycheck a Minority Report, la narrativa opprimente e spesso convoluta di Dick si è insediata nell’immaginario collettivo, creando visioni deliranti e sfrenate di mondi futuribili. Certo, l’uso di certe sostanze da parte dello stesso Dick potrebbe esser stato d’aiuto, così come una vita tutt’altro che regolare, ma è innegabile che la dialettica dell’autore di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (senza cui non avremmo avuto Blade Runner, giusto per dire) sia stata una strepitosa fotografia del suo tempo.
La natura del genio

Prima di essere uno dei grandi maestri della sci-fi sociale, Philip K. Dick era un uomo inconsueto e problematico, governato da una vita irregolare, dominata relazioni disfunzionali e abuso di sostanze psichedeliche ispirate da filosofie ribelli degli anni ’60. Elementi che lo catapultavano in stati mentali alterati e a percezioni di esperienze paranormali.
Una dissociazione tra reale e percepito, tra il concreto presente della massa e la sua visione superiore, che apriva a nuovi orizzonti, tanto che, secondo quanto riportato al giornalista Charles Platt, a metà anni ’70 la sua mente si scisse in due entità, che vivevano in due linee temporali, in una delle quali era Valis (acronimo di Vast Active Living Intelligence Systeme), a cui dedicò il suo ultimo romanzo, Valis, per l’appunto.
Eppure, nonostante tutta la sua delirante visione del mondo, Dick ancora oggi si rivela uno dei migliori analisti della società americana, con un punto di vista talmente focalizzato sui giusti dettagli da risultare quasi inquietante, soprattutto nel suo rapporto con la tecnologia.
Il singolo in lotta col mondo

Pur essendo stato preceduto da autori, come Orwell, che avevano visto nella tecnologia un pericoloso strumento di controllo delle masse, Dick riuscì a spingere la sua avversione al progresso come un elemento disumanizzante dell’individuo, basti pensare alla tecnologia alla base del suo romanzo Un oscuro scrutare. In ogni sua opera, l’elemento tecnologico, presto o tardi, si rivela traditore per l’individuo, che sembra essere la vittima disegnata di un universo totalizzante e poco incline all’accettare una scintilla di personalità, soprattutto se rapportata al concetto di reale, alla dicotomia realtà e percezione, tanto che lo stesso autore aveva il proprio manifesto:
“I due temi fondamentali che mi affascinano sono ‘Che cos’è la realtà?’ e ‘Cosa costituisce l’essere umano autentico?’ Nei ventisette anni in cui ho pubblicato romanzi e racconti, ho indagato questi due argomenti interrelati più e più volte”
Due punti saldi che incarnavano un’altra diade dickiana: la convinzione che il mondo fosse un gigantesco falso in cui tutti siamo invischiati e illusi (decenni prima di Matrix) e la sua innata curiosità per i processi sociali, i mattoni della presunta realtà in cui viviamo.
La società è una prigione?

Il punto di incontro di queste due visioni era la convinzione dell’autore che la società fosse una sorta di agglomerato di idee sostenuto da una fabbrica di verità fittizie, create ad arte da grandi centri di poteri (organizzazioni religiose, stati, media) che creavano strumenti tecnologici finalizzati al controllo delle masse, come il macchinario di controllo emotivo inserito dall’autore in Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Un punto fermo della dialettica di Dick, che riassunse in modo abbastanza netto con questa definizione di società:
Il bombardamento di pseudo-realtà inizia a produrre molto rapidamente esseri umani inautentici, esseri umani spuri — tanto falsi quanto i dati che li pressano da tutte le parti. I miei due argomenti sono realmente un unico argomento; si uniscono a questo punto. Le realtà false creeranno esseri umani falsi. Oppure, gli esseri umani falsi genereranno realtà false e poi le venderanno ad altri esseri umani, trasformandoli, alla fine, in falsificazioni di se stessi. Così ci ritroviamo con esseri umani falsi che inventano realtà false e poi le propongono ad altri esseri umani falsi.
La paura di Dick di non distinguere il reale dalla finzione è alla base di quasi tutta la sua produzione. La crescente paranoia e sfiducia nei confronti del potere costituito, sulla scia del maccartismo degli anni ’50, radicalizzò nella mente dell’autore queste ansie, vere e proprie manie sociali, trasformandole nella sua ispirazione, ma anche nella sua condanna come individuo.
Volendo per un attimo seguire il pensiero di Dick, guardando al mondo digitale contemporaneo si potrebbe vedere una certa attinenza ai suoi timori. La sempre più presente intelligenza artificiale, che in diversi campi ‘inganna’ l’umanità, il controllo capillare dei poteri costituti tramite tecnologie ad hoc sono elementi cari alla narrativa di Dick, inseriti come moniti nella sua produzione, ma oggi divenute presenza così quotidiane da passare quasi in sordina.
Il pericolo dell’iperconnessione

Philip K. Dick cercò di mettere in guardia il mondo, attraverso i suoi lavori che spesso esplorano il crollo delle realtà fittizie e la fine delle illusioni manipolate dal potere. Le sue opere riflettono anche la paranoia, evocando temi attuali come l’ingerenza dei social media e la loro creazione di mondi illusori in cui la percezione sostituisce la realtà.
Che lo si definisca profetico o attento osservatore, a Dick va riconosciuta una invidiabile capacità di anticipare i tempi. Nonostante i suoi lavori oggi possano risultare datati per alcuni elementi (la donna in ruolo eccessivamente subalterno, la convinzione che tutti avrebbero fumato come segno di ribellione), comunque figli del suo tempo, Dick era capace di anticipare non solo invenzioni ma anche evoluzioni sociali, come osservato dallo scrittore Stan Nicholls:
“Le sue storie ipotizzavano l’ubiquità di Internet, della realtà virtuale, del software di riconoscimento facciale, delle auto senza conducente e della stampa 3D. E’ un malinteso pensare che la previsione sia lo scopo principale della fantascienza; il tasso di successo del genere in questo rispetto non è davvero molto buono. Come tutta la migliore fantascienza, le sue storie non riguardavano davvero il futuro, ma il qui e ora”
L’eredità di Dick

Uno sguardo attento che non si limitava al predire un’ingerenza del soft power come strumento di controllo, teorizzando inconsapevolmente il potere del branding e dell’advertising prima che divenissero bombardamento quotidiano, ma anche indagando nella politica, con sfiducia bipartisan.
Basti pensare alla sua analisi sui totalitarismi con La svastica sul sole (The Man in the High Castle), che si affianca a una ritrosia al potere centrale, derivato dall’esperienza del maccartismo e dalle prime ribellioni della contro cultura. Dick, in questo, era un precursore, che ebbe però poca presa sui contemporanei, complice una scrittura tutt’altro che accessibile per sua forma, più vicina agli slanci funambolici del futuro cyberpunk che non alla tradizione sua contemporanea.
Eppure, oggi Dick rimane uno dei veggenti del nostro presente.



