A volte mi sento un fallito. Come se non ci fosse speranza per me. Ma anche così, non mi arrenderò. Mai!

C’era una volta un ragazzo senza poteri, in un mondo dove avere un Quirk era norma, proprio come nell’universo di Vigilantes. Quel ragazzo, tuttavia, sognava di diventare un Eroe ad ogni costo, il più grande eroe di tutti i tempi. Oggi, dopo più di dieci anni di dolori e gioie, quel sogno s’avvera. Izuku Midoriya è davvero il Number One Hero, ma non come i più avrebbero immaginato: è un simbolo di resistenza e sopportazione, un giovane che non si è arreso dinanzi alle ingiustizie della vita, alla morte, alle incomprensioni. Ed è per questo che – a nostro parere – My Hero Academia è stato non “solo un manga”, bensì un’esperienza, talvolta traumatica, un percorso di crescita condivisa. Un viaggio tra luci e ombre, tra cadute dolorose e redenzioni inaspettate, ma anche un’ode alla fragilità umana che si nasconde dietro ogni supereroe in calzamaglia.

Kohei Horikoshi, dopo ben 42 volumi e 430 capitoli, risponde ad una fatidica domanda: cosa succede quando cala il sipario e gli Eroi smettono di essere infallibili? L’autore ha scavato, lentamente, nelle crepe dell’ideale eroico (nostrano e non), mostrando un mondo dove anche i Villain piangono e i Pro Hero uccidono, poiché la storia da lui imbastita non è mai stata solo quella di un “manga di supereroi”. È stata, piuttosto, un’analisi sottile e intensa dell’essere umano e delle sue infinite sfaccettature.

Cosa significa davvero essere un Eroe?

My hero academia © star comics, amazon.it
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Horikoshi ha riscritto la figura del supereroe partendo da una premessa piuttosto semplice: l’eroe non è colui che vince sempre, ma colui che sceglie di non arrendersi, anche quando tutto sembra perduto. E Izuku Midoriya incarna questa visione, in quanto non è il più forte, non è il più brillante, ma è colui che comprende, che tende la mano verso il prossimo, sia questo amico o nemico. Al posto della violenza bruta e della prepotenza Deku sceglie la fatica del dialogo, dell’empatia.

Il giovane Hero non combatte solo con il “suo” Quirk donatogli da All Might. Forte di una indicibile determinazione nel salvare anche – e soprattutto – coloro che hanno smarrito la retta via, Deku dà sfoggio di uno straordinario spirito di sacrificio, sin dalle primissime tavole. E nel farlo, diventa il simbolo di un eroismo nuovo, fallibile, stanco, e proprio per questo incredibilmente reale, fino alla fine.

Horikoshi, dunque, non è impegnato a glorificare l’eroe, bensì lo decostruisce, spogliandolo dell’aura divina tipica del fumetto, e riportandolo sulla terra. Lo sporca, di sangue e fango, lasciando che la sua opera faccia il suo corso: anche tu puoi essere un eroe, a patto che tu abbia ideali forti e la volontà di sostenerli, anche quando tutto ti rema contro. Anche quando il destino sembra non avere in programma null’altro per te, ad eccezione del tormento.

La linea sottile tra giusto e sbagliato

My hero academia © toho animation | crunchyroll
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Tuttavia, come ha fatto? Come è riuscito l’autore di un battle shonen a reinterpretare un’intera etimologia?
Ebbene, partiamo dal presupposto che, nel mondo narrativo del maestro Horikoshi, la distinzione tra “giusto” e “sbagliato” non è mai netta. Hawks, ad esempio, è un Pro Hero acclamato, amato da tutti, eppure uccide a sangue freddo un uomo, attaccandolo alle spalle. E alla fine Twice, quel villain con la voce rotta e il cuore grande, muore tra le lacrime di chi non è riuscito a salvarlo da sé stesso. Tuttavia, per comprendere appieno la narrativa di Horikoshi, è bene partire da un assunto fondamentale: Keigo e Jin, prima di essere Pro Hero o Villain, sono due esseri umani.

E quando Hawks compie quel gesto tanto vile quanto irreversibile, il lettore resta spiazzato. È stato giusto? Era davvero necessario? O è semplicemente un’altra forma di ingiustizia mascherata da dovere da eroe? Ed è lì che Horikoshi disorienta i lettori, non fornendo una risposta univoca e costringendoci a guardarci dentro, oltre la patina di illibata perfezione che è il mondo degli Hero. A chiederci se, davvero, possiamo fidarci degli eroi, o se anche loro siano solo pedine di un sistema corrotto.

All it takes is one bad day” diceva il Joker. E Horikoshi, come Alan Moore prima di lui, ci ricorda che basta davvero poco ad un brav’uomo per crollare. Per passare da aspirante eroe a nemico pubblico, o da valoroso Pro Hero ad assassino a sangue freddo.

Stain, l’eroe dei Villain

My hero academia © toho animation | crunchyroll
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Nessuna figura incarna questa voluta ambiguità meglio di Stain. L’Hero Killer è un assassino, certo, ma le sue disturbanti parole denunciano una società dove l’eroismo si è spogliato degli ideali, trasformandosi in mera professione: un brand, una carriera. Eroi che s’apprestano a diventare tali solo per essere osannati, pagati, idolatrati.

Questa società, sovraffollata di falsi eroi, dove la parola stessa ha perso il suo vero significato, e i criminali che sventolano il loro potere con indifferenza, dovrebbero essere tutti epurati.

Stain è violento, ma coerente, e la sua visione del mondo si dirama, contaminando altri personaggi: Spinner, Twice, Mr. Compress, Toga. Tutti Villain, ma prima ancora persone deluse dalla politica e dallo stato, abbandonate da coloro che avrebbero dovuto proteggerli e servirli. Analizzando l’opera, pian piano appare lampante che i Villain – fatta eccezione per All for One e pochi altri – non fossero mai “cattivi e basta”. Sono individui feriti, disillusi, persone rotte. Figli della solitudine, dell’abbandono, dell’ingiustizia, ognuno di loro è emblema di ciò che accade quando la società chiude gli occhi dinanzi ai soprusi.

Jin Bubaigawara era solo un uomo buono, un martire a tratti. La sua fragilità l’ha reso vulnerabile e nessuno lo ha mai aiutato davvero. Come lui, tanti altri membri dell’Unione dei Villain sono la prova lampante di un mondo che non prova a comprendere chi è diverso dalla massa, ma si limita a punire chi soffre in silenzio. Così, Horikoshi non giustifica le loro azioni, ma preferisce umanizzarli. Li mostra per ciò che sono: vittime. E lo fa senza retorica, senza pietismo, ma con una forza narrativa straordinaria.

Shigaraki Tomura, il contraltare oscuro di Midoriya

My hero academia © Toho animation | Crunchyroll
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I villain di Horikoshi non sono solo “cattivi”, ma vittime di un mondo che li ha abbandonati. Non semplici antagonisti, ma personaggi tragici, spesso guidati da ideali forti. In loro, il lettore può specchiarsi, comprenderli. Perché a volte distruggere il presente è l’unico modo per sperare in un futuro diverso.

Dopotutto, Horikoshi non ha mai avuto bisogno di sacrificare i suoi personaggi per dare peso alla storia: My Hero Academia è pur sempre uno shonen, e come tale trasmette valori profondi a un pubblico giovane. Eppure, è proprio questa semplicità a veicolare la sua potenza narrativa. Shigaraki Tomura, il villain per eccellenza, è emblema del fallimento della società: nato Tenko Shimura, ha perso tutto in pochi istanti, senza colpa né consapevolezza, ignorato da eroi e cittadini. Solo All for One gli tende la mano: manipola, corrompe, sfrutta i suoi asserviti. Non insegna nulla a Shigaraki, se non ad odiare sé stesso, plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Trasformandolo in un’arma perfetta, specchio oscuro di Midoriya.

Deku e Shigaraki sono due facce della stessa medaglia: bambini soli, con poteri immensi, in cerca di una guida. Il primo ha trovato un mentore, All Might. L’altro, un mostro. Ed ecco che My Hero Academia urla in faccia ai pregiudizi, ricordandoci l’importanza di un mentore giusto, un eroe che ci accompagni mano nella mano, finché non sapremo camminare da soli.

Nonostante ciò, l’opera non è mai stata priva di difetti. Horikoshi ci ha abituati al fallimento fin dal primo capitolo. Abbiamo spesso criticato le sue scelte narrative, detestato la natura lamentosa di Midoriya e maledetto il suo tratto iper-dettagliato. Eppure, ci siamo sempre ritrovati tra le pagine della sua opera, attratti da una narrazione che va oltre il classico Eroe Buono contro Nemico Cattivo, demolendo ideali assoluti e proponendo verità scomode.

L’eredità di un mentore

My hero academia © Toho animation | Crunchyroll
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Non sappiamo se Horikoshi fosse consapevole, all’inizio, della potenza della sua penna. Fatto sta che, nel marasma di capitoli, episodi e storie emerge inesorabile un personaggio in particolare: All Might, emblema di speranza e guida del giovane protagonista. Un padre amorevole, ma anche un compagno d’avventure intento a non imporre la propria volontà, ma ad accompagnare Midoriya nel suo viaggio. Ed è grazie a lui che Deku diventa davvero un Eroe.

Otto anni dopo la fine della guerra, difatti, Midoriya non è più un ragazzino impacciato. È un uomo, ma anche un insegnante, ha scelto di formare nuovi Eroi, proprio come Aizawa, proprio come All Might. E quando il piccolo Kota gli chiede se anche lui potrà diventare un giorno un Hero, Deku sorride:

Tu puoi diventare un Hero. Fai del tuo meglio, ragazzo.

La fine di una storia

My hero academia © star comics | amazon.it
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Dire addio a Deku e ai suoi compagni ha spezzato i cuori dei fan, ma My Hero Academia si è concluso nel modo più realistico e confortante possibile: una storia che ha avuto un inizio, uno svolgimento e, soprattutto, una fine. Pochi shonen possono vantarsi di essersi fermati prima di degenerare, e Horikoshi lo ha fatto, narrando semplicemente la nascita, le azioni e la fine di un eroe. Nulla di più, nulla di meno.

Non ci sono teorie da analizzare, né colpi di scena: solo sorrisi, silenzio e un cerchio che si chiude, accogliendo decine di personaggi autentici, mai svenduti alla spettacolarizzazione. My Hero Academia non è mai stato un battle shonen qualsiasi, ma una storia di crescita, di passaggi di testimone: da All Might a Deku, da Deku a Kota. Una riflessione continua su Bene e Male, ideali, giustizia e, soprattutto, umanità.

In un panorama narrativo ossessionato dall’inaspettato, sorprende la semplicità lineare e realistica con cui tutto si è concluso. Deku non possiede più il One for All, ma ha ciò che serve per essere un eroe: la nobiltà d’animo. Perché l’eroismo non è nei pugni, ma nella volontà quotidiana di rialzarsi e fare la cosa giusta. Non serve un Quirk, non serve un mantello, per essere un Pro Hero. Per oltre dieci anni abbiamo amato, criticato, discusso questa epopea. Eppure siamo sempre tornati, perché questa era una storia che parlava anche di noi, dei nostri sogni, dei nostri fallimenti, della nostra umanità. E ora che si è conclusa, resta solo gratitudine per un’opera che ha saputo fermarsi con coraggio, nel momento giusto.

My Hero Academia non è stato perfetto. Ma è stato vero. E questo basta per farne un classico.

Questa è la storia di come sono diventato il più grande degli Eroi.

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Napoletana, classe 92, nerd before it was cool: da sempre, da prima che fosse socialmente accettato. Dopo il diploma al Liceo Classico, una breve ma significativa tappa all'Accademia di Belle Arti mi ha aperto gli occhi sul futuro: letteratura, arte e manga, compagni di una vita ed elementi salvifici. Iscritta a Lettere Moderne, ho studiato e lavorato per poi approdare su CPOP.IT e scoprire il dietro-le-quinte del mondo dell'editoria. Dal 2025 scrivo per LaTestata e mi sono unita al team di ScreenWorld in qualità di Capo Redattrice Anime e Manga: la chiusura di un cerchio e il coronamento di un sogno.