Le mani sporche di sangue, la mente che fatica a ricordare, la consapevolezza che la memoria sia l’unica vera arma che abbiamo contro il ritorno di vecchie abitudini dure a morire.
Eppure, mentre l’occidente – carnefice attivo e servo del Terzo Reich – ha sviluppato una memoria collettiva e quantomeno critica nei confronti delle barbarie del secolo scorso, il Giappone – soprattutto se analizziamo il contesto culturale dei manga – si è sempre tenuto un po’ alla larga da alcune di queste tematiche, trattando la Shoah in maniera marginale.
Tale lacuna storica – se così vogliamo chiamarla – sembrerebbe essere il risultato di una serie di fattori politici, sociali e culturali che riflettono il rapporto complesso del Giappone con il proprio passato bellico.
Oggi, in occasione della Giornata della Memoria, andremo ad esaminare questo particolare fenomeno, trascinando al banco dei testimoni non solo le difficoltà del popolo nipponico nel confrontarsi con i traumi della guerra, ma anche il modo in cui il Giappone ha interpretato e trasformato – in un certo qual modo – la memoria storica, talvolta sfruttando il filtro del kawaii.

Il peculiare approccio del Giappone alla questione ebraica
Non vogliamo nessun’altra guerra! Per questo mi sono messo a scriverne contro.
Queste le parole usate da Manga no Kamisami, Osamu Tezuka, ne “I Tre Adolf”, una delle poche opere (a noi pervenute) che illustra le ripercussioni psicologiche delle azioni di Hitler e i suoi alleati nel corso degli anni.
È bene ricordare che il Giappone, pur essendo alleato della Germania nazista come parte dell’Asse, mantenne una certa distanza dalle politiche antisemite del Terzo Reich. Difatti, sebbene avesse firmato il Patto Anticomintern del 1936 e nonostante le pressioni delle SS, il Giappone si rifiutò di attuare lo sterminio ebraico, concedendo asilo a circa 20.000 ebrei europei in fuga dall’Europa nazista.
I Giusti: Chiune Sugihara e Kiichiro Higuchi
Così, mentre il regime nazista seminava terrore e morte, alcuni individui si distinsero per il loro coraggio e altruismo nel salvare vite umane. Eroi che potrebbero essere accostati a Oskar Schindler quali esempi straordinari di umanità e sacrificio: Chiune Sugihara e Kiichiro Higuchi, entrambi riconosciuti in seguito come Giusti tra le Nazioni per il loro impegno nel proteggere gli ebrei perseguitati.
Chiune Sugihara, vice-console giapponese a Kaunas (Lituania), si trovò di fronte a una crescente ondata di ebrei in fuga dalla persecuzione nazista. Contravvenendo alle rigide direttive del governo giapponese e supportato dalla caparbia moglie, iniziò a rilasciare visti di transito (spesso fino a notte fonda), consentendo a circa 6.000 ebrei di lasciare l’Europa e trovare rifugio a Shanghai.
Altro giusto fu Kiichiro Higuchi, ufficiale dell’esercito imperiale giapponese, che collaborò con Abraham Kaufman, leader della comunità ebraica di Harbin, per garantire rifugi sicuri agli ebrei in fuga attraverso la “Higuchi Route”, una via di fuga ferroviaria. Grazie alla sua influenza nell’esercito giapponese, migliaia di vite innocenti furono tratte in salvo.
La Shoah nella cultura giapponese: memoria e rimozione
Nonostante questi esempi viventi di etica e morale, l’attenzione giapponese verso la Shoah rimase scarsa (o marginale) per decenni. Il Giappone – probabilmente anche a causa dell’isolazionismo – interpretava le atroci disumanità compiute in Europa come una tragedia confinata all’Occidente, di cui il popolo nipponico poteva lavarsi le mani.
Fu solo negli anni ‘50, in seguito alla traduzione internazionale del Diario di Anna Frank, che il pubblico giapponese prese a confrontarsi con questo oscuro capitolo della storia mondiale, e a prendersi parte delle sue responsabilità.
Il “Fascismo Giapponese”: ipotesi o realtà?

Dunque, il Giappone ha storicamente faticato a fare i conti con il proprio ruolo nella guerra, preferendo concentrarsi sulle proprie perdite piuttosto che sulle barbarie commesse altrove. D’altronde è bene ricordare che, nonostante non abbia partecipato attivamente alla Shoah, i giapponesi si sono macchiati di numerosi crimini di guerra, caratterizzati da una brutalità sistematica e torture nei confronti di prigionieri e civili.
Nei territori occupati, il Kempeitai (la polizia segreta giapponese) agiva con metodi simili alla Gestapo nazista, infliggendo punizioni fisiche brutali ai prigionieri. Le condizioni nei campi di prigionia erano disumane, con un tasso di mortalità estremamente elevato, in particolar modo tra i prigionieri cinesi (a causa della revoca delle restrizioni sul loro trattamento).
L’esercito giapponese attuò politiche di distruzione sistematica, come la strategia dei “Tre Tutto” in Cina, mirata a sterminare intere popolazioni e distruggere risorse del luogo. A ciò vanno aggiunti l’utilizzo delle armi chimiche (nonostante i divieti internazionali), stupri, episodi di cannibalismo, giustificati dalla “scarsità di risorse”, ma anche una serie di esperimenti umani estremamente crudeli condotti dall’Unità 731. Un modus operandi che ha migliaia di punti in comune con il Nazismo e il Fascismo: un vero e proprio Olocausto.
Il fenomeno kawaii quale il filtro della memoria

Questo atteggiamento omertoso e di apparente menefreghismo, unito al disinteresse nella scoperta e studio dell’olocausto ebraico, ha trovato lampanti ripercussioni nella scarsa rappresentazione della Shoah, specialmente nei manga, un medium – come ben sappiamo – non legato esclusivamente al mero intrattenimento, bensì anche e soprattutto “diffusore di cultura”.
Le opere dedicate a questo tema sono poche, spesso limitate a interpretazioni semplificate, un fatto che si aggraverà ulteriormente negli anni ’80, quando la cultura pop giapponese fu avvelenata dal fenomeno del “kawaii”. Tale modo di rappresentare figure e personaggi tramutò in graziosi bambolotti persino figure di un certo rilievo quali l’Imperatore Hirohito o… Anna Frank.
Ebbene sì, l’esempio cardine della Shoah è stata spesso ritratta attraverso il filtro “kawaii”, un approccio che ha inevitabilmente sminuito la tragicità della sua storia, trasformandola in un’icona meno angosciante e più accessibile al pubblico.
I manga e la Shoah: eccezioni significative
Come abbiamo già accennato in precedenza, nonostante la riluttanza generale a ricordare, vi sono alcune eccezioni che meritano attenzione. In primis, Osamu Tezuka, padre del manga moderno, che ne “I tre Adolf” ha scandagliato i punti cardine della Seconda Guerra Mondiale, esaminando l’impatto delle persecuzioni antisemite e denunciando apertamente razzismo e antisemitismo.
Al fine di esaminare i fenomeno in tutte le sue sfaccettature, analizziamo assieme alcune delle opere più celebri e significative che hanno trattato la Seconda Guerra Mondiale e lo sterminio ebraico.
Osamu Tezuka: Der Führer ist Jude

“I Tre Adolf” di Osamu Tezuka inizia con una rivelazione sconvolgente: Der Führer ist Jude. È il 1936 quando Sohei Toge si reca a Berlino per le Olimpiadi, dove scopre che suo fratello Isao possiede documenti compromettenti sulle origini ebraiche di Adolf Hitler: dopo il sospetto assassinio di Isao, Toge si impegna in una rischiosa ricerca della verità.
Parallelamente, a Kōbe, l’amicizia tra Adolf Kaufmann (figlio mezzosangue di un ufficiale tedesco e di una giapponese) e Adolf Kamil (ebreo tedesco) viene minacciata dalle loro famiglie e dalle tensioni politiche del tempo, finché Kaufmann viene inviato a Berlino e subisce (non troppo passivamente) l’indottrinamento degli ideali nazisti.
In questo avvincente intreccio di vite, storie e drammi, Tezuka esplora le contraddizioni umane e il potere distruttivo dell’odio: Kaufmann si trasforma in uno spietato ufficiale nazista, il che simboleggia la facilità con cui alcune ideologie siano in grado di corrompere l’anima, come un veleno che infradicia le radici di un maestoso albero in fiore.
L’autore, tuttavia, non si limita a criticare l’Europa: il dio del manga mette in luce le ipocrisie della sua Patria, denunciando il razzismo, la guerra e la violenza travestite da spirito patriottico dell’Impero, complice – ai suoi occhi – del massacro quanto Italia e Germania.
Diario di Hanako: un racconto contemporaneo?

Oltre a Tezuka, troviamo anche Machiko Kyō con il suo “Diario di Hanako”, opera frutto della visita dell’autrice sia alla casa di Anna Frank, sia ad Aushwitz Birkenau. Il manga è il racconto – quasi contemporaneo – di una adolescente che, a differenza della sorella, vive immersa nella sua realtà edulcorata, inconsapevole dei segnali oscuri che la circondano, anche quando il mondo si trasforma in un incubo senza fine.
L’opera di Machiko, con le sue linee sottili e il tratto delicato, gli acquerelli, crea un forte contrasto con la vicenda narrata, ispirata a eventi storici reali e allo stesso “Diario di Anna Frank”. In effetti, l’obiettivo della mangaka pare essere quello di preservare la memoria di un genocidio che il revisionismo ha tentato di cancellare.
Come per “I Tre Adolf”, anche il “Diario di Hanako” non si limita a raccontare la sofferenza delle vittime: l’autrice esplora la prospettiva dei carnefici attraverso la figura del giovane Taro, un ragazzo che finisce per diventare una pedina del sistema, assumendo il controllo del campo di prigionia di Hanako.
Questo duplice elemento permette all’autrice di indagare le radici del male e di dar vita a un manga che invita a riflettere sul presente e su come costruire un “domani” diverso: esente da odio e guerre.
L’attacco dei Giganti: una metafora del conflitto?

Ebbene sì, terminiamo la nostra analisi con la citazione di due anime (e manga) che richiamano – più o meno palesemente – al conflitto e alle atrocità legate all’olocausto, alla ghettizzazione, alla sperimentazione su esseri umani, al razzismo. Opere che celano la critica storica e sociale dietro trame intriganti e ben sviluppate.
Nell’anno 845 un titano colossale appare nel distretto di Shiganshina e sfonda il Wall Maria, permettendo a decine di giganti di invadere la città e causare morte e distruzione. Gli umani cercano di evacuare verso il Wall Rose, ma un gigante corazzato sfonda un’altra porta, costringendoli a una drammatica ritirata.
Tra i sopravvissuti ci sono i giovanissimi Eren Jaeger, Mikasa Ackermann e Armin Arlert, tre amici che, segnati dalla tragedia, decidono di arruolarsi nel Corpo di Ricerca per combattere i giganti e riconquistare la tanto agognata libertà.
Ucciderò tutti…i giganti!
Isayama è certamente uno degli autori più controversi degli ultimi anni: i suoi mostruosi giganti sono molto simili alla descrizione “bestiale” degli ebrei nei libri di storia tedeschi, rappresentati spesso quali esseri demoniaci (come i demoni di Paradis), nemici da sterminare.
Le creature che infestano le campagne di Paradis rivelano solo in seguito la loro vera natura: esseri umani trasformati dopo essere stati esposti a “esperimenti”, vittime di un sistema oppressivo, e il parallelismo con il Nazismo è servito. Gli Eldiani, considerati inferiori, vivono segregati nei ghetti, costretti a odiare la loro stessa “specie”, a combattere guerre di cui non comprendono le motivazioni, mentre i Marleyani sfruttano il controllo mediatico per alimentare l’odio verso questi esseri immondi e mantenere il potere.
La storia narrata da Isayama non si limita, tuttavia, a questo. L’avventura di Eren e i suoi compagni dimostra come il vero nemico dell’umanità sia essa stessa, incapace di sfuggire al ciclo di odio e distruzione creato in precedenza: la guerra non porta mai alla pace, e il ripetersi incessante e periodico del conflitto rammenta quanto sia difficile imparare dagli errori del passato.
Ovviamente, “L’Attacco dei Giganti” ha suscitato innumerevoli controversie nel corso degli anni: alcuni critici l’hanno accusato di promuovere il nazionalismo, mentre altri la interpretano come una critica ai regimi dittatoriali.
Eighty-six (86): minoranze razziali e disumanizzazione

Non voglio morire!
“Eighty-Six”, di Asato Asato è una feroce critica alle guerre e alla ghettizzazione degli esseri umani con evidenti rimandi a Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale.
La moderna Repubblica di San Magnolia e l’Impero di Giad sono in guerra da anni. La Repubblica combatte contro l’esercito nemico utilizzando i Juggernaut, unità autonome controllate a distanza da “Handler”: una guerra tra macchine, in sostanza. Tuttavia, la realtà è ben diversa.
Dietro (e all’interno dei) i Juggernaut, infatti, ci sono degli esseri umani: i giovanissimi “86”, quel che resta degli abitanti dell’ultimo distretto, una sorta di ghetto dove è costretta a lavorare in condizioni disumane la razza dei Colorata, una minoranza etnica considerata inferiore dalla razza Alba.
Ragazzi (anche molto giovani) privati della loro identità, disumanizzati e costretti a pilotare le macchine da guerra, che tentano disperatamente di non perdere la lucidità: la loro esistenza è segnata dalla speranza vana di ottenere un trattamento migliore. Asato utilizza questa distopia per sollevare una riflessione profonda sulla guerra: così facendo, il racconto diventa un monito sulle atrocità che l’umanità può infliggere a sé stessa sotto il pretesto della superiorità e del dovere, proprio come accaduto nell’Europa nel 1940.
Un nodo impossibile da sciogliere.

In definitiva, non sapremo mai il reale motivo che si cela dietro la scarsità di manga dedicati alla Shoah: questa scelta riflette, forse, la tendenza della cultura giapponese a evitare il confronto diretto con il proprio passato bellico, o quantomeno un’inclinazione a concentrarsi sul proprio dolore, senza guardare altrove.
Per decenni, il Giappone ha preferito mantenere una certa distanza emotiva dalla tragedia della guerra, usando un approccio che ha contribuito a marginalizzare l’olocausto ebraico, relegandolo a un livello superficiale che non ne coglie appieno la sua portata storica e morale.
Nonostante ciò, negli ultimi anni si registra una crescente consapevolezza.
Tuttavia, negli ultimi anni si registra una crescente consapevolezza delle contraddizioni interne alla società giapponese: l’apertura verso una riflessione più profonda è testimoniata dal lavoro di artisti quali Thomas Carlo Lay che, attraverso la raccolta intitolata “Jewish Manga”, si prefigge di trattare la storia ebraica sfruttando il linguaggio del manga, un mezzo più accessibile e comprensibile alle nuove generazioni, rispettando tuttavia la tragedia e ripudiando la kawaii culture.
In questo contesto, il manga, oltre alla sua funzione di intrattenimento, diventa uno strumento potente per stimolare una riflessione consapevole sulla Shoah e sulle sue implicazioni universali, il tutto superando le rappresentazioni superficiali e abbracciando una narrazione più autentica e rispettosa, favorendo una comprensione più profonda di uno dei capitoli più tragici della storia umana.