Bisogna guardare con attenzione. Succede spesso nei fumetti di Alessandro Bilotta, raffinato osservatore che affida ai suoi personaggi lo stesso sguardo acuto. Succedeva con Mercurio Loi, l’investigatore scimmiesco che passeggiava per Roma scrutando ogni anfratto della capitale papalina. Succede ancora con Eternity, dove Alceste Santacroce, l’insolente giornalista “gossiparo” spia nelle vite altrui con sadico cinismo. E allora guardiamo con attenzione anche noi. Partiamo dalla copertina di Eternity. Partiamo dalla patina, dall’abito. Tutte cose molto importanti in questa storia.
Osservando il logo del nuovo fumetto Sergio Bonelli (etichetta Audace, visti i temi poco tradizionali), notiamo che è simile a un’insegna a neon. Un’insegna luminosa, vistosa, dove l’ultima “T” è spenta. Un dettaglio straniante che illumina tutto Eternity. Ovvero la storia di un’anima in pena che si aggira in un Paradiso di plastica chiamato Roma. Ma cosa si nasconde dietro l’insofferenza di Alceste? E perché Roma è sempre il teatro prediletto per le storie immaginate dall’affilata penna di Alessandro Bilotta? Ne abbiamo parlato con lui e con Sergio Gerasi, che ha dato al primo albo di Eternity un eccentrico tono grottesco. Ecco cosa ci hanno raccontato alla scorsa Lucca Comics & Games. Con buona pace della capitale.
Eterno grottesco
Leggendo Eternity ci rende subito conto di quanto il contesto (urbano e sociale) sia predominante nella storia. Come avete lavorato sulla costruzione dell’immaginario?
Bilotta: Guarda, Francis Scott Key Fitzgerald diceva che i personaggi sono forti tanto quanto più fanno parte del contesto a cui appartengono e viceversa. Detto da uno che ha raccontato l’età del jazz e tutto quel contesto sociale. Quindi tenderei a fidarmi. Io credo molto in questa cosa: se uno decide di raccontare una storia di marinai, è necessario capire bene quel mondo marinaio. Solo così si evitano gli stereotipi. Nel caso di Eternity ci siamo presi del tempo per far decantare l’immaginario in cui muovere la storia. L’idea iniziale era quella di raccontare qualcosa di profondamente contemporaneo dove ci fosse però un sapore anni Sessanta, anche nella moda. Tirare fuori questo ibrido ha creato discussioni e ha richiesto impegno. Alla fine sono felice dell’equilibrio che abbiamo trovato: non c’è uno smaccato gusto fantascientifico ma un vago sapore retrò. L’impressione è quella di una società contemporanea che ha ripreso a vivere come si viveva quarant’anni fa.
Un’altra cosa che emerge con prepotenza leggendo Eternity è la recitazione dei personaggi: grottesca e esasperata. Come avete lavorato in questo senso? Erano indicazioni precise di Alessandro o è stata una trovata di Sergio?
Gerasi: Già dal primo lavoro che abbiamo fatto insieme abbiamo sempre puntato tanto sulla recitazione marcata. Lo abbiamo fatto con Walter Buio, in parte anche con Dylan Dog (nonostante sia un personaggio più codificato in cui il margine di manovra è minore) e poi con Mercurio Loi, dove abbiamo spinto molto sul grottesco. Con Eternity ci siamo trovati davanti a un paradosso: un protagonista che non si muove mai, glaciale e fermo. Siamo passati da un personaggio sempre in movimento come Mercurio Loi (che per me è sempre stato una specie di Arlecchino), che era molto teatrale, a un fumetto come Eternity in cui il protagonista deve muoversi il meno possibile. Per cui si recita meno col corpo e molto più con le espressioni del viso. A livello di disegno ci ho tenuto molto a riempire sempre molto le tavole rifinendo anche i dettagli sullo sfondo. Ammetto che mi piace utilizzare il grottesco perché spesso è una via per arrivare all’autenticità delle persone.
Cercando Alceste
Parlando del character design di Alceste, che riferimenti avete utilizzato per dare forma al protagonista?
Gerasi: Quando Alessandro mi propone di lavorare su un personaggio non mi fornisce mai dei riferimenti reali (personaggi esistenti, attori, etc.). La sua descrizione è sempre caratteriale e narrativa, senza mai appoggiarsi a qualcosa di già esistente. Quando definiamo un protagonista quello che ci interessa è la sua psicologia, non tanto il suo aspetto. Certo, Alceste ne ha passate tante di facce prima di diventare chi è adesso.
Bilotta: Trovare l’aspetto definitivo di Alceste ha creato un certo tormento. È un personaggio distante da tutto e da tutti, sempre in bilico tra l’essere un buono e un cattivo. L’imprinting iniziale era quella di un protagonista totalmente negativo, che poi abbiamo sfumato con l’eleganza, il portamento e l’essere un uomo d’altri tempi. Per certi versi sembra quasi un emissario del diavolo mandato sulla Terra nato da una serie di suggestioni e contaminazioni. Sicuramente è un personaggio molto meno marcato di Mercurio Loi.
La cosa che colpisce del vostro lavoro insieme è la continua celebrazione della stortura, del brutto e del difforme. Tutto in un contesto spesso votato all’eroismo puro e tradizionale come quello Bonelli. Questa peculiarità è spontanea o è un voluto approccio originale al fumetto bonelliano?
Gerasi: Ma infatti in Bonelli si dicono: “Ma perché?” [ride]
Bilotta: Sai, seguendo il discorso di prima, se vuoi caratterizzare davvero un personaggio lo devi limare e sfumare per forza. E allora difficilmente ti ritrovi tra le mani l’eroe classico dalla perfezione marmorea con la faccia di Brad Pitt. Un personaggio perfetto può raccontare qualcosa di molto distante da noi, quindi non si sposa con le storie che scrivo io. Superman e Dottor Manhattan sono personaggi interessanti nel momento in cui raccontano una distanza da noi. Se vuoi raccontare storie immerse nel mondo, i personaggi devono essere storti
Gerasi: Infatti, a confermare il grande lavoro di scrematura sul personaggio, ci abbiamo messo più di un anno per trovare il vero Alceste. Lo abbiamo riempito anche di dettagli minuscoli, come piccoli vezzi, tic e ossessioni. Magari sono cose che non nota nessuno, ma per noi era importante inserirle nel fumetto.
Ultima domanda per Alessandro: il tuo conto aperto con Roma è chiuso?
Bilotta: Forse non è un conto. È che io conosco Roma e racconto Roma. Se vuoi fare un affresco cittadino credibile, devi raccontare quello che sai. Ecco perché ambiento spesso le mie storie lì. Se dovessi inventare una Metropolis tutta mia, allora probabilmente i personaggi avrebbero degli atteggiamenti tipicamente nostri, italiani. Pensa che una volta scrissi una sceneggiatura per un produttore americano. La storia era ambientata a Miami. A un certo punto un personaggio chiede a un altro: “Ma ancora non ti hanno messo in galera?”. Ecco, solo dopo mi sono accorto che quella frase non era altro che un tipico modo di dire romano (“ancora non t’hanno ‘ncarcerato?”). Secondo me uno scrittore è uno che deve raccontare i propri limiti. È un intellettuale fino a un certo punto, perché deve raccontare quello che vede.