Quando si decide di parlare di giallo, inteso ovviamente come genere letterario, non si può pensare d’ignorare la presenza e la rilevanza di una certa Agatha Christie. Senza nulla togliere alla recentemente scomparsa Angela Lansbury, lei è la vera signora in giallo, la scrittrice che ha posto le basi del genere stesso capace, poi, di evolversi verso il crime poliziesco o il thriller più intenso.
Dai suoi romanzi, infatti, è possibile estrarre una sorta di formula perfetta che, se applicata correttamente, dà sempre il suo risultato. Uno schema in cui non ha alcuna importanza chi sia l’assassino, fosse anche l’intramontabile e sempre sospettato maggiordomo. Tra le sue pagine, infatti, nulla di accessorio viene detto o raccontato. Importante è il procedimento dell’investigazione che si esalta attraverso la personalità di personaggi simbolo come Hercule Poirot e Miss Marple.
Una struttura ben precisa, dunque, che, nel corso del tempo è stata reinterpretata o addirittura tradita dalla nuova letteratura gialla. A seguire quest’andamento sono anche gli autori italiani che, in un rimando tra tradizione e visioni più internazionali, hanno conquistato un posto importante tra gli appassionati del genere. Ma quali sono le caratteristiche e le molte voci che definiscono la crime story all’italiana?
Prendendo come spunto la recente uscita al cinema di Io sono l’abisso, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Donato Carrisi, proviamo a costruire un confronto a tre voci. Un incontro tra quella roca e inconfondibile di Andrea Camilleri, quella più introspettiva di Maurizio De Giovanni, per finire proprio con Donato Carrisi, sicuramente il più avventuroso nel “tradire” maggiormente la strada tracciata dalla Christie.
L’inconfondibile sciauro di Camilleri
Se c’è un autore che è possibile identificare senza alcun tentennamento attraverso il suo tono, quello è sicuramente Andrea Camilleri. E non solamente per l’inconfondibile timbrica carica di una lunga esperienza di fumatore. Ciò che rende la sua letteratura gialla riconoscibile fin dalle prime parole, piuttosto, è il suono del dialetto, di quel siciliano musicale ed evocatore che riempie le pagine di atmosfera.
In questo modo, dunque, la lingua definisce e tratteggia un mondo ben definito che incornicia l’azione. E non solamente da un punto di vista scenografico. Utilizzare il siciliano per Camilleri non è esclusivamente una dimostrazione di quotidianità o un atto di appartenenza culturale. Piuttosto rappresenta un escamotage essenziale per andare a definire l’ambiente che determina la natura dei personaggi.
In questo senso, dunque, possiamo dire che la sua narrazione in qualche modo segue e, al tempo stesso, tradisce i dettami stabiliti dall’esperienza letteraria della Christie. Da una parte, esattamente com’è accaduto con lei, si serve di una sorta di alter ego, un personaggio cardine attraverso cui agire e risolvere quei crimini con i quali, altrimenti, non si sarebbe mai confrontato.
Salvo Montalbano, però, non è assolutamente la proiezione del suo autore quanto il riflesso di un uomo che, nel suo essere comune a molti altri, trova una sorta di eccezionalità nel saper osservare e comprendere la natura dei suoi simili. Esattamente come accaduto con Poirot, Camilleri offre una descrizione dettagliata di Montalbano ma, a differenza del sagace belga, gli fa dono di un’umanità e di una fragilità che ha molto a che fare con l’appartenenza a un luogo ben specifico con cui si confronta quotidianamente in un gioco costante di lontananze e vicinanze.
Osservando la strada evolutiva che l’autore ha tracciato per lui durante i lunghi anni di frequentazione, dunque, possiamo dire che il commissario e il suo modo d’interpretare il mondo sono elementi essenziali rispetto all’assassinio stesso. La risoluzione del delitto, infatti, è assolutamente finalizzata a mettere alla prova le capacità di Montalbano e del suo team.
Un aspetto che, però, tocca l’elemento professionale quasi in modo secondario lasciando spazio alle doti umane. Il mondo in cui tutti loro si muovono, infatti, ha spesso dei tratti ambigui, dove il concetto di bene e male non sempre è così definito. Per districarsi in questo gioco d’ombre così peculiare, dunque, viene in aiuto proprio la sicilianità che si traduce spesso nella comprensione delle mancanze altrui e nel giudizio delle proprie.
L’umanità di De Giovanni
Il commissario Ricciardi, i Bastardi di Pizzofalcone e Sara. Rispetto all’esperienza di Camilleri, legata quasi esclusivamente all’evoluzione investigativa di un solo personaggio, Maurizio De Giovanni si mette alla prova su piani narrativi ed epoche completamente diverse. Tutte, però, declinate nelle tinte del giallo o nelle atmosfere del poliziesco. Filo d’unione tra questi percorsi letterari è la grande umanità che le attraversa. Per De Giovanni, infatti, sembra che l’uomo sia l’elemento centrale dei suoi gialli.
Un protagonista assoluto, capace di mettere in secondo piano anche le cause alla base di un delitto e la sua risoluzione. Che si cammini insieme a Ricciardi tra le strade di una Napoli degli anni venti e trenta, o si viva nelle atmosfere decisamente più contemporanee del commissariato di Pizzofalcone, la sostanza non cambia assolutamente. L’uomo detta il passo della narrazione e definisce chiaramente lo stile di un racconto che non si perde mai troppo nella ricostruzione storica minuziosa.
In questa sorta di letteratura umanista, però, a essere esaltate non sono certo le caratteristiche “eroiche” del personaggio quanto, piuttosto, tutte quelle ombre che lo rendono imperfetto e unico. In questo senso, dunque, De Giovanni, si pone a metà strada tra la tradizione e la modernità assoluta del genere. Utilizza delle figure ricorrenti che riempie di un mondo tutto da scoprire grazie ai delitti con cui si confrontano.
Da questo punto di vista, dunque, la sua narrativa sembra essere più vicina a quella di Camilleri anche se, in realtà è velata di una sorta di malinconia che non appartiene al primo. Anche per lui la collocazione geografica rappresenta un elemento essenziale ma non definisce in modo così determinante la natura dei personaggi. Piuttosto Napoli è il teatro ideale all’interno del quale mettere in scena un delitto, facendo riferimento a quella vasta umanità che la popola e che, di tanto in tanto, guadagna la ribalta.
Le motivazione del male di Carrisi
Basta leggere poche pagine dei romanzi di Donato Carrisi per capire immediatamente di quanto l’atmosfera e l’interpretazione del genere giallo sia completamente diversa rispetto agli altri due autori. In questo caso, infatti, le note e le nuances del racconto virano decisamente verso il crime, offrendo una descrizione che volge a ricostruire un chiaro senso d’inquietudine e paura.
A determinare la peculiarità delle sue storie, però, è soprattutto la rappresentazione e l’interpretazione di quello che comunemente viene definito il “male”. Rispetto a Camilleri e De Giovanni, infatti, nelle pagine di Carrisi il delitto conquista uno spazio centrale. Questo vuol dire che, per la prima volta la figura dell’assassino si contende il ruolo da protagonista con i personaggi deputati a risolvere il caso.
Una scelta particolare che ricorre in ogni romanzo andando dal suo esordio con Il suggeritore, fino ad arrivare a quella è definita la trilogia di Marcus, probabilmente la serie di romanzi più riuscita. Subendo le influenze del crime internazionale, Carrisi si lancia, insieme ai suoi personaggi, nella difficile impresa di ricostruire l’identikit del serial killer.
Un’attività che, passo dopo passo, rende sempre più definiti e chiari i connotati fisici ed emotivi di chi è deputato a vestire i panni dell’assassino. In questo gioco, dunque, non è assolutamente importante lasciare la completa risoluzione del caso alla fine. Piuttosto si traccia un percorso conoscitivo in cui, volta per volta, il lettore viene a diretto contatto con alcune rivelazioni ben prima dei personaggi stessi.
Una struttura che, utilizzando i trucchi della suspense, però, ha anche lo scopo di cercare di capire, comprendere e, in parte, giustificare il male stesso. Fino a questo punto, infatti, nessun autore sembra essersi concentrato troppo su questo elemento. Per Camilleri molti delitti sono legati all’ambiente culturale e sociale in cui avvengono. Per De Giovanni hanno motivazioni personali ed emotive.
In Carrisi, invece, l’assassino assume i tratti del serial killer e la casualità del delitto lascia spazio alla ripetizione patologica. Per questo motivo, dunque, per l’autore è importante comprendere e capire le motivazioni alla base di questa sete insaziabile di violenza. Perché anche dietro il male possono esserci delle cause e delle motivazioni. E questa consapevolezza riesce a tingere il giallo della narrazione di tinte ben più cupe e attuali.