In occasione dell’uscita nelle sale, il 23 Dicembre, della versione spielberghiana di West Side Story, andiamo a scoprire perché il musical diretto da Robert Wise e Jerome Robbins (che si occupò delle coreografie), che nel 2021 compie esattamente 60 anni, è stato così importante e innovativo per la storia del cinema. Che un maestro riconosciuto della settima arte come Spielberg abbia realizzato nel 2020 (il film era già pronto ma è stato rimandato a Dicembre 2021) un remake di West Side Story rende l’idea di quanto il film, adattato dallo sceneggiatore Ernest Lehman dall’omonimo musical, abbia segnato l’immaginario collettivo americano, ma anche internazionale.
Perfino chi odia i musical e scappa via non appena vede qualcuno che canta e balla all’interno di un film conosce i ritornelli di Maria, Tonight, America e I feel pretty. Non si tratta solo dei riconoscimenti avuti (10 Oscar vinti tra cui miglior film e miglior regia) ma di una storia universale e appassionante, raccontata con grazia, arguzia e abilità tecniche incredibili, che affronta temi ancora attuali e scottanti ma senza aver timore di mettere in campo tutti gli strumenti più innovativi e spettacolari disponibili all’epoca, per un risultato sontuoso e al tempo stesso intimo, fantasmagorico ed emozionante, divertente e commovente. Non ultime le immortali musiche di Leonard Bernstein, anche ideatore del soggetto originale, furono l’elemento decisivo che decretò il successo del film. Gli sfrenati ritmi, tra tonalità blues e latine, delle musiche di West Side Story erano lontani anni luce dalle zuccherose melodie dei musical classici. Aggiungiamo infine alcune insospettabili prefigurazioni del cinema di David Lynch presenti in questo cult-movie, di cui tratteremo più avanti.
La trama
Due Gang giovanili si contendono il controllo della squallida fetta di quartiere in cui vivono, nell’Upper West Side di New York: i Jets, composti dai “nativi”, e gli Sharks formati invece da immigrati portoricani. Maria (Natalie Wood), la sorella di Bernardo (George Chakiris), leader degli Sharks, si innamora ricambiata di Tony (Richard Beymer), migliore amico di Riff (Russ Tamblyn), capo dei Jets. Da qui nasceranno soltanto guai.
Se a qualcuno, leggendo la storia, tornasse alla mente Romeo e Giulietta non sarebbe in errore visto che Leonard Bernstein (autore delle musiche e del soggetto), Arthur Laurents (autore del copione) e Stephen Sondheim (autore dei testi delle canzoni, scomparso tra l’altro proprio il 26 Novembre scorso), artefici del musical originale, si ispirarono proprio all’immortale opera del bardo di Stratford-upon-Avon.
Un attacco incredibile
I talenti messi in campo da Wise e Robbins e la voglia di sperimentare si intuiscono fin dai titoli di testa, che in realtà sono molto di più di questo: non ci sono crediti all’inizio, neanche un nome, ma soltanto una sorta di dipinto astratto che cambia colore con effetti caleidoscopici ipnotici sulla base della ouverture musicale che racchiude i temi principali del film. Improvvisamente, tramite un movimento di macchina all’indietro col quale viene finalmente mostrato il titolo del film, ci accorgiamo che quelle linee erano i profili degli edifici di Manhattan e infatti con una dissolvenza si passerà proprio ad una ripresa dall’alto dello Skyline della famosa isola di New York. L’autore di questa fantasmagoria in technicolor è Saul Bass, il genio dietro agli incredibili titoli di testa di film come Anatomia di un omicidio (1959), La donna che visse due volte (1958), Intrigo Internazionale (1959), Cape fear (1991), L’età dell’innocenza (1993), solo per dirne alcuni. Non contento, Bass creò anche i bellissimi titoli di coda con i nomi dipinti come graffiti sui muri. La lungimiranza di Wise, anche produttore del film, si vede dunque anche nella scelta di chiamare un innovatore come Bass a occuparsi dei titoli.
Dallo skyline di Manhattan la camera passa con altre inquadrature dal cielo, “a piombo”, che riprendono i palazzi di New York, passando dalle zone più ricche e abbienti con grattacieli e parchi, ai quartieri popolari con edifici bassi disposti a scacchiera, uno quasi attaccato all’altro. Il divario sociale ed economico, visto dall’alto, è lampante e dice già molte più cose di tante indagini sociologiche. Infine ci avviciniamo, sempre dall’alto, ad un cortile recintato e zoomiamo sulla gang dei Jets che schiocca le dita mentre guarda altri che giocano a pallacanestro. È come se gli autori, passando con queste spettacolari riprese dall’universale al particolare, volessero sottolineare uno sguardo da ricercatore scientifico, da entomologo, che va ad esplorare e studiare un ambiente sotto-vetro. Oppure, invece, l’incipit potrebbe voler sottintendere l’occhio di Dio che vede e giudica ciò che succede tra i piccoli uomini mortali. Lasciamo allo spettatore l’interpretazione.
A questo seguono 8 minuti praticamente senza dialogo in cui i membri delle due gang si provocano l’un l’altro, con piccoli agguati e scherzi, fino ad arrivare ad una vera e propria rissa che verrà sedata dalla polizia. Il modo in cui i gesti di sfida si trasformano in passi di danza, lo schioccare delle dita che indicano spavalderia ma servono anche a tenere il ritmo musicale, le carrellate che accompagnano elegantemente i numeri coreografici per le strade, il fischio di richiamo dei Jets che fornisce il là all’inizio del film e all’inizio di questa magistrale sequenza, tutto questo crea un sensazionale amalgama di danze, movimenti, ritmo di montaggio e inquadrature efficaci che hanno pochi pari nella storia del musical. Il clima di ostilità tra le bande rivali e i rapporti di forza vengono già tutti raccontai energicamente in questi incredibili minuti in cui le parole non servono. E siamo soltanto a 15 minuti su 2 ore e mezza.
Il musical nelle strade
Fino a West Side Story i musical cinematografici si giravano in studio. Da Cappello a cilindro (1935) a Cantando sotto la pioggia (1952) e Gigi (1958) i musical sono stati sempre realizzati dove era più facile orchestrare le complicate coreografie e ricostruire le ricchissime scenografie necessarie per storie che, per loro stessa natura, nascevano in universi edulcorati e avulsi dalla realtà. Gene Kelly che schizza l’acqua contento sotto la pioggia non potrebbe farlo tra la fanghiglia delle strade vere di New York, molto meglio tra le limpide pozzanghere dello studio MGM. West Side Story no! La sua vicenda non potrebbe respirare se non tra le strade e i vicoli del quartiere in cui si muovono gli Sharks e i Jets. E questo si avverte nel film, si percepisce la realtà dell’ambiente dietro i balletti, la si annusa quasi. Ci sono anche scene girate in studio, ovviamente, ma non stridono perché si tratta di sequenze in cui prevale maggiormente il carattere fiabesco, rispetto all’impianto “realista” del film. Ovviamente parliamo sempre di un realismo filtrato dalla sensibilità musical.
Temi scottanti
Non solo West Side Story porta il musical nelle strade ma non si fa remore di affrontare argomenti scottanti come il razzismo americano nei confronti degli immigrati, in questo caso portoricani, tema purtroppo attualissimo ancora oggi. Il celebre brano America, interpretato da George Chakiris e Rita Moreno (entrambi premiati con l’Oscar come non protagonisti, la Moreno ha anche una piccola parte nel remake di Spielberg) nei ruoli di Bernardo e Anita, affronta l’argomento con sapiente ironia, contrapponendo l’ingenuo entusiasmo di Anita per gli elementi più vistosi ed esteriori dell’american way of life all’amara disillusione di Bernardo che si trova da più tempo nel paese e ha già dovuto fare i conti con ostilità e razzismo.
Ma, soprattutto, il film di Wise e Robbins si dimostra coraggioso nel tratteggiare un bieco capitano di polizia, Schrank, che apparentemente cerca di sedare le risse, ma in realtà parteggia spudoratamente per la gang bianca dei Jets, arrivando perfino a cacciare gli Sharks da un bar senza alcun motivo plausibile. L’incoraggiamento e l’avallo della polizia degli anni ‘60 nei confronti di atteggiamenti razzisti si fa ancor più inquietante se pensiamo alle violenze e ai delitti compiuti ancora oggi da una parte delle forze dell’ordine americane nei confronti delle minoranze.
Balli come espressione di pulsioni
Le coreografie di West Side Story, ideate da Jerome Robbins, non sono delicate e ordinate come quelle dei musical precedenti, ma esprimono tutta la rabbia repressa dei giovani protagonisti. Si tratta certamente di passi di danza, ma sono anche esplosioni più o meno controllate e canalizzate di pulsioni violente che attraversano l’animo di questi giovani ribelli. Guardiamo per esempio al numero musicale Cool: il dolore e il rancore provocati dalla morte di un amico diventano movimenti convulsi, a volte trattenuti, ma comunque incanalati in una perfetta coreografia. Be cool, rimani calmo, freddo, disinvolto esorta Ice (Tucker Smith). E così dovranno comportarsi i Jets se non vorranno farsi notare dalla polizia e compiere la loro vendetta. Anche nella prima sequenza di cui abbiamo già parlato è evidente come gli istinti più aggressivi dei giovani ribelli del West Side si incanalino in saltelli, corse e giravolte eleganti. Se ci riflettiamo, West Side Story non fa altro che sottolineare la natura già di per sé altamente coreografica delle risse in strada che, da un certo punto di vista, possono sembrare naturalmente dei balletti.
Cosa c’entra David Lynch?
Esiste una forte connessione tra il rivoluzionario musical di Wise e Robbins e la filmografia del genio oscuro di Missoula. Non solo perché all’interno del celebre serial Twin Peaks (1990-2017), nei ruoli di Benjamin Horne e del dottor Jacoby, Lynch volle Richard Beymer e Russ Tamblyn, ovvero Tony e Riff della gang dei Jets. Se in West Side Story guardiamo il passaggio onirico, quasi psichedelico e segnato da un rosso accecante, tra la stanza in cui Maria, sognando la sua nuova vita americana, comincia a vorticare su sé stessa e la scena del ballo nella palestra, con quei colori accesissimi, quelle sospensioni temporali in cui Tony e Maria si riconoscono per la prima volta come anime gemelle, le forsennate coreografie sul mambo latino, è difficile non pensare all’atmosfera surreale della gara di ballo in stile Jitterbug che apre Mulholland Drive (2001), come pure alla splendida coreografia che chiude Inland Empire (2006).
L’atmosfera fiabesca, sospesa e surreale che anima quella e altre scene di West Side Story è rintracciabile nelle scene di ballo dei due film di Lynch, ma anche nella propensione agli ondeggiamenti ballerini che i personaggi lynchani hanno nei più disparati contesti, dalla sensuale Audrey Horne al nano e allo stesso Benjamin Horne-Richard Beymer di Twin Peaks, dalla coppia Sailor-Lula di Cuore Selvaggio (1990) e al perverso Frank di Velluto blu (1986). Tutti questi personaggi improvvisamente accennano passi di danza nelle situazioni più diverse e stridenti, ricordando i movimenti molleggiati dei Jets che attraversano le strade del loro quartiere e tradendo dunque un amore di Lynch per il musical e per West Side Story in particolare.
L’eredità di West Side Story
Sembra scontato dirlo ma dopo West Side Story il musical non è più stato lo stesso. Uscendo dagli studi e andando a sporcarsi tra le strade, affrontando temi decisamente più attuali e spinosi, il musical di Wise e Robbins ha permesso a Hollywood di sfornare in seguito musical di rottura che sono diventati altrettanti capolavori del cinema: pensiamo soprattutto a Bob Fosse e ai suoi bellissimi Cabaret (del 1972 ma ambientato durante l’affermazione del nazismo) e All That Jazz (del 1979, il suo 8½ in versione musicale), a Saranno famosi (1980), passando poi per Chorus Line (1985), per Chicago (2002), fino ai recenti fasti de I
Les misérables (2012) e La La Land (2017). Perfino in Italia, dove siamo notoriamente allergici al musical, i colori accesissimi di Tano da morire (1997) di Roberta Torre si ispirano apertamente al film di Wise, come sarà più chiaro in seguito col successivo Sud Side Stori (2000) che fin dal titolo si richiama apertamente al musical delle gang giovanili.
Se pensiamo anche al conflitto tra “nativi”, come vengono spregiativamente definiti i Jets da Bernardo nella versione originale (in italiano è “Indigeni”), e i portoricani stranieri invasori, il concetto non è dissimile dalle ostilità che animano il bellissimo e sottovalutato Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese, in cui si vedono contrapposti i nativi alla comunità degli irlandesi nel 1865.
Siamo sicuri che l’uscita del remake riaccenderà la curiosità nei confronti di questo classico e, a giudicare dalle prime immagini, sembra che il cineasta di Cincinnati sia rimasto fedele, nei colori molto accesi, al look visivo dell’originale, aggiungendo ovviamente quella sua qualità unica di plasmatore di immagini indelebili, a cominciare da quella, per noi già iconica, delle ombre inquadrate dall’alto delle due gang che si fronteggiano. Non vediamo dunque l’ora di gustarci questa versione spielberghiana del musical.