Warfare è il nuovo war movie diretto da Alex Garland e Ray Mendoza. La collaborazione tra i due nasce sul set di Civil War, film del 2024 diretto da Garland. Mendoza, ex Navy SEAL, ha offerto la sua consulenza militare per entrambi i film, firmando con Warfare anche la sua prima co-regia. Il film si concentra su un episodio della guerra in Iraq in cui una squadra della Navy SEAL viene assediata da guerriglieri nemici.

Con questo progetto, Garland sembra voler tracciare una nuova rotta per il proprio cinema, abbandonando la vena fantascientifica che aveva caratterizzato la prima parte della sua filmografia (Ex Machina, Annientamento, Men). Warfare si presenta come un’opera radicalmente diversa dalle precedenti, tanto per stile quanto per contenuto. Il risultato è qualcosa di inedito, molto più vicino a un cinema che potremmo definire performativo.

Rappresentazione…

Warfare
Il gruppo in ritirata dopo l’attacco – ©DNA Films, A24

Distinguiamo allora ciò che è rappresentazione da ciò che è performance. La rappresentazione è narrazione: un episodio che viene costruito attraverso la messa in scena e lo stile. Serve a trasmettere un messaggio o evocare significati attraverso una storia e dei temi. Non va inoltre confuso il testo con il sottotesto. Il testo è tutto ciò che è esplicito: gli eventi di trama, i personaggi, le azioni. Tutto ciò che lo spettatore riceve direttamente.

Il sottotesto è ciò che è implicito: tutto ciò che non viene rivelato, ma può essere estrapolato dal testo – emozioni, sensazioni, verità emotive o ideologiche della scena. La performance, invece, è qualcosa di profondamente più limitata. L’episodio narrativo diventa molto più immediato. In primo piano vi è l’azione meccanica dei corpi e degli eventi. Si focalizza principalmente su ciò che avviene nella storia, senza tener conto di significati reconditi o contesti di altro tipo.

La performance cinematografica si avvicina molto al documentario d’azione, una sorta di reportage in presa diretta. Ha quindi un carattere più diretto, immersivo ma, soprattutto, meno interpretativo. Lo spettatore viene lanciato nell’azione e, come in un’esperienza VR, la vive passo dopo passo. La scrittura, in questo caso, si concentra sul descrivere fedelmente l’azione in sé: come essa avviene nei suoi particolari, senza tenere conto delle questioni che hanno prodotto l’azione stessa.

… e performance

Warfare
Una scena del film – ©DNA Films, A24

Warfare è chiaramente un esempio di cinema della performance. L’intera storia si concentra esclusivamente su un episodio realmente accaduto: uno squadrone militare americano, dopo aver preso possesso di un’abitazione civile, si scontra con i ribelli. Ciò che appare è esattamente ciò che è. Non viene costruita alcuna cornice narrativa o storica che aiuti lo spettatore a orientarsi all’interno di uno dei conflitti più complessi e controversi degli anni Duemila.

Dal momento in cui il film inizia fino alla sua conclusione, lo spettatore assiste a una vera e propria rievocazione dell’episodio. In questo processo emerge una grande attenzione, da parte dei due registi, al modo in cui i soldati si muovono, comunicano e agiscono. Il mantenimento delle posizioni, le strategie di difesa, le dinamiche tra le unità: tutto contribuisce ad aumentare il realismo della scena. L’obiettivo è allora una completa immersione dello spettatore nell’azione.

Il problema è che il film si limita precisamente a questo. La perizia con cui viene coreografata e riesumata questa pagina di guerra non può non evidenziare le limitate intenzioni alla base. Non vengono raccontate le motivazioni, le ideologie e i meccanismi che hanno portato l’America a invadere l’Iraq. Lo spettatore assiste a una guerra senza conoscerla. Non vi è alcun modo di capire il perché, il quando e il come di questo conflitto, lasciando alla mera azione il compito di portare avanti la narrazione.

L’azione non basta

Warfare
Will Poulter nel film – ©DNA Films, A24

Viene allora da chiedersi perché i due registi abbiano scelto di affrontare un tema tanto importante quanto sensibile, soprattutto conoscendo le opere precedenti di Garland. Il regista inglese aveva ampiamente dimostrato, con Civil War, di avere dell’America una visione critica e autoriflessiva. Il film del 2024 affrontava con fermezza la possibilità, neanche troppo lontana, di una guerra civile americana, sostenendo come le politiche aggressive del momento e la nascita di veri e propri movimenti d’odio non potessero che sfociare nell’autodistruzione.

L’aspetto socio-politico, qui, viene invece completamente abbandonato. Visti i precedenti, ci troviamo sicuramente di fronte a una scelta. La questione, però, non è solamente ideologica. Questa ritirata di Garland non solo rende il film contenutisticamente limitato, ma produce anche dei personaggi completamente vuoti. I soldati non hanno vere e proprie motivazioni per essere lì, non parlano mai del perché o del per come. Vediamo i loro sguardi terrorizzati, ma non ciò che c’è dietro. L’aspetto psicologico dei personaggi è completamente messo da parte.

Non ci sono veri motivi per cui lo spettatore dovrebbe empatizzare con loro, se non per il semplice fatto che sono soldati. Ma il soldato è un essere umano – e richiede uno sviluppo delle varie sfere della sua vita: lavorativa, familiare, sociale, emozionale. In Warfare i soldati sono intercambiabili, a eccezione di alcune micro-caratterizzazioni che servono più a restituire la frenesia del momento che a delineare l’aspetto umano della vicenda. La scelta avvicina sì il soldato a delle mere pedine, ma bisogna ricordare che anche queste si muovono sempre secondo una strategia imposta dall’alto.

Dov’è finito il sottotesto?

Warfare
La tensione è protagonista – ©DNA Films, A24

I war movies più apprezzati non hanno portato in scena solo il lato tecnico della guerra ma, soprattutto, l’aspetto umano. Il cuore di tenebra di cui parla Conrad e che viene riversato magistralmente da Francis Ford Coppola all’interno di Apocalypse Now. La prospettiva cinese sulla guerra in Vietnam di John Woo con A Bullet in the Head. L’ipocrisia e le spaventose contraddizioni di Paths of Glory di Stanley Kubrick. L’assurda dipendenza della guerra e il suo lato alienante in The Hurt Locker di Kathryn Bigelow.

La guerra è ciò che porta l’essere umano al suo limite: morale, etico e culturale. Limitarla a una rievocazione tecnica non può che produrre film innocui, dove conta solo l’immersione e la tensione del singolo evento.  Warfare, per recuperare un termine dello stesso film, assomiglia a uno show of force. A una messa in scena puramente dimostrativa che alla fine non produce effetti pratici. Non basta la violenza dei corpi smembrati e l’orrore grafico a raccontare una pagina così drammatica della storia umana. Lo spettatore non arriva a conoscere il conflitto in Iraq, anzi, forse ne sa anche meno.

Solo il terrore che vediamo negli occhi dei civili riflette tutti gli interrogativi dello spettatore più accorto. Interrogativi che, a quanto pare, sono troppo scomodi. Poco commerciali, poco utili allo stato delle cose. Warfare si presenta allora come un esercizio di stile che sfrutta un tema importante per il solo scopo di intrattenere. Senza realmente aggiungere qualcosa alla categoria di cui fa parte. La possibilità di alzare ancora la voce, soprattutto nel contesto odierno, è una possibilità rara. Scegliere una via innocua, senza dire davvero qualcosa, è la cosa peggiore che possa capitare quando si dirige un film di guerra.

 

 

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Cinefilo accanito, musicomane, videogiocatore e appassionato di letteratura e fumetti. Sono uno studente di cinema e audiovisivo, con una particolare attenzione alle produzioni del continente asiatico. Puoi trovarmi come cinerama46 sui social!