Tra le sale del Festival di Cannes 2025 non si fa altro che parlare di un film piaciuto praticamente a chiunque e che sta riscuotendo ampi consensi. Ci riferiamo a Urchin, esordio alla regia per quel Harris Dickinson che abbiamo già visto in Triangle of Sadness e Babygirl. Un nome sempre più presente nel panorama della settima arte, capace di generare interesse nell’immediato e in futuro. Erano in molti a temere che la sua pellicola non sarebbe stata all’altezza, e invece Dickinson ha saputo dimostrare che non è soltanto bravo a recitare.
Costruendo una storia di vita vissuta, marcia fin nel midollo, ma con un sapore sentimentale che sa di speranza, Urchin è un esordio accattivante, che si muove in punta di piedi tra i giganti. Ma come Davide con Golia, l’opera prima di Dickinson è in grado di fare parecchio rumore, sebbene non manchi qualche sbavatura.
Genere: Drammatico
Durata: 99 minuti
Uscita: tba (cinema)
Cast: Frank Dillane, Harris Dickinson, Megan Northam
Un documentario sulla sofferenza

Il protagonista della pellicola è Mike (Frank Dillane), un senzatetto di Londra che cerca di vivere alla giornata e sopravvivere non soltanto ai pericoli della strada. Entrando in contatto con l’amico e rivale Nathan, interpretato dallo stesso Dickinson che si ritaglia solo una piccola parte, finirà per compiere le scelte sbagliate che lo porteranno non solo in prigione e non solo, ma anche su un baratro oscuro profondo e personale.
La storia di Mike viene delineata con cura e sensibilità, com’è di consueto con pellicole che vogliono mostrare la vita e i turbamenti dei reietti e dei dimenticati. Ciò che stupisce è il taglio della regia che in qualche modo ricorda un documentario. La cinepresa è sempre posizionata piuttosto lontano, avvicinandosi con lentissime carrellate, quasi a voler scrutare un animale nel suo habitat naturale mentre si prepara ad attaccare la sua preda. Tant’è che la rabbia e la violenza, sebbene mai mostrate esplicitamente, sono una tematica centrale del film.
Mike è un ragazzo che nasconde dentro di sé una grandissima e profonda sofferenza. Gli manca qualcosa, un affetto o un calore che non riesce a colmare, finché qualcos’altro prende il sopravvento e la furia scatta. Ancora una volta la regia di Dickinson è attenta al dettaglio: abbandona la classica pratica del primo piano per mostrare i sentimenti del protagonista per abbracciare una ripresa più ampia in grado di lasciar trasparire ogni flessione nei muscoli di Mike. Una regia solida, questa, che colpisce nel segno e non si dimentica facilmente.
Esordire in punta di piedi… ma con stile

Non è tutto oro ciò che luccica. Se la regia sapiente e distaccata, solo a un primo sguardo, di Dickinson e l’ottima interpretazione di Frank Dillane sono riusciti a stupire, ciò che può far storcere il naso riguarda le sequenze oniriche e metaforiche. Lo scarico della doccia nasconde un gorgo infernale che porta a una dimensione profonda e carica di significato. Un significato fin troppo palese, per certi versi. Che una storia riceva le dovute e necessarie spiegazioni è sacrosanto, ma quando si entra nell’ambito dei simbolismi nel cinema c’è una linea sottile tra cliché beceri e scene incomprensibili.
In questo caso, l’ago della bilancia si posiziona esattamente nel mezzo, sbilanciandosi un po’ troppo verso sequenze eccessivamente didascaliche. Avremmo preferito qualcosa di meno palese. Va detto, però, che lo stile con cui sono messe in scena queste sequenze oniriche è meravigliosamente stiloso, con una colonna sonora che ricorda i maestri del cinema ed effetti visivi al pari di una produzione molto più importante. In fin dei conti, si ha la sensazione che Dickinson abbia voluto esordire in punta di piedi, con una storia intima e delicata che vuole esplorare le emozioni di un ragazzo spezzato alla ricerca di qualcosa che non può più avere. In punta di piedi, perché poteva portare su schermo qualcosa di incredibilmente più pomposo e roboante, ma ha preferito soffermarsi su una storia semplice, in cui l’imprevedibilità della strada si nasconde dietro l’angolo. Una storia sulla vita di una persona che raramente verrebbe raccontata.
Un esordio in grado di smuovere giganti come Sean Baker e Darren Aronofsky, chiare fonti di ispirazione per il giovane regista londinese che ne attinge a piene mani per sviluppar uno stile unico, mai derivativo. Urchin è un film in cui la speranza di una vita tranquilla e libera dalla sofferenza non abbandona mai Mike, ma che riesce a dimostrare quanto la rabbia giovanile lasci un segno indelebile. Un film che nasconde qualche sbavatura nelle sequenze puramente simboliche, ma che dimostra come si dovrebbe esordire alla regia.
Conclusioni
Harris Dickinson esordisce con un film semplice e focalizzato sui sentimenti, le paure e la violenta rabbia di un senzatetto londinese. Grazie alla grande interpretazione di Frank Dillane e a una regia che ricorda un documentario, Urchin è una piccola opera che in punta di piedi può smuovere anche i giganti del settore. Peccato solo per un simbolismo troppo didascalico.
Pro
- Lo stile della regia e della fotografia che ricordano un documentario
- Frank Dillane è perfetto per la parte
- Una storia semplice e di vita vissuta che lascia il segno
- Molto stiloso, dalla colonna sonora agli effetti visivi
Contro
- Potrebbe non piacere a chi non ama le storie semplici
- Le sequenze oniriche e i simbolismi sono eccessivamente didascalici
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Voto ScreenWorld