Un autore iconico, un’opera leggendaria, mille significati possibili: il segno lasciato da J.R.R. Tolkien nel mondo contemporaneo è ancora evidente, soprattutto sul piano culturale. Com’è sempre accaduto, tuttavia, qualsiasi opera creativa dal grande impatto sociale deve fare i conti col giudizio (o l’interpretazione) della politica. Che si tratti di appropriazione culturale o di comoda ideologia, l’astuzia di chi vive al di sopra del popolo è capace di sfruttare qualsiasi zona grigia per aprire intere voragini. Per Il Signore degli Anelli e Tolkien, però, nessuno avrebbe immaginato una deriva squisitamente italiana, con l’opera del maestro ritenuta addirittura imprescindibile per la formazione di alcuni degli attuali protagonisti in parlamento.
La recente inaugurazione di una mostra dedicata allo scrittore britannico rappresenta l’occasione perfetta per analizzare il perché una certa fetta della politica nostrana abbia subito così tanto il fascino di un’interpretazione tolkieniana senza precedenti. Dichiarazioni di comodo? Soltanto in parte. Depauperazione artistica? Probabilmente esagerato. Il senso del messaggio desunto dall’opera tanto cara alla presidente Meloni e a diversi suoi colleghi ha radici profonde. Anche, e soprattutto, nel contesto politico che il nostro paese ha visto mutare ed evolvere tra le correnti di un progresso irrefrenabile.
Con il conservatorismo ostacolato su diversi fronti dopo i moti studenteschi del ’68, molti avrebbero considerato ridicola l’idea di sfruttare l’immagine di Tolkien come “custode degli antichi valori”. Come accennato dal New York Times lo scorso autunno, invece, quello che sarebbe potuto apparire come il bieco tentativo di attirare nuove leve verso un certo modo di fare politica ha quasi finito per divenire il motore che legittima la “giusta causa” della destra più convinta. Il fatto che Tolkien abbia avuto un fascino così particolare per molti uomini di potere in Italia è un fenomeno che merita decisamente un approfondimento.
La destra italiana amante del fantasy?
Una furba interpretazione letteraria ha dato quindi il via a un vero e proprio fenomeno culturale. L’appropriazione dell’ideologia tolkieniana post-’68 è in effetti un’idea che parte da italiani: strano a dirsi, ma Il Signore degli Anelli è passato in pochi anni dalla sacralità del messaggio ambientalista caro agli hippie (con tanto di “etichetta” nelle prime edizioni italiane) a un ribaltamento concettuale della sua stessa simbologia. Il periodo di maggior crisi della destra più radicale è però coinciso proprio con l’ascesa dell’opera di Tolkien.
Mentre i marxisti abbracciavano il realismo di derivazione sovietica, l’ordine del mondo tolkieniano cominciava lentamente a rappresentare il rifugio più sicuro per i neofascisti: un mondo magico e puro in cui le gerarchie si mantenevano rigide, dove il male andava sempre combattuto e sconfitto. Al di là di eventuali travisamenti, non è un caso che questo slancio abbia avuto inizio proprio attraverso le traduzioni italiane, all’epoca legate alla destra storica (Rusconi su tutte). In questo frangente, lo schieramento in ricostruzione non ha avuto alcun contraltare: da una parte, la sinistra giovane e florida non considerava il neonato fantasy un genere di reale valore politico rispetto alle storie borghesi; dall’altra, molti osservavano superficialmente Tolkien e riconoscevano in lui un tradizionalismo di stampo conservatore particolarmente marcato, a tratti aristocratico, che ben si sposava con l’ideologia sovranista.
Bastò omettere alcuni dettagli attraverso prefazioni e discussioni sul tema per rendere effettiva una visione tolkieniana differente. Già alla fine degli anni ’70 la destra più estrema vedeva in Frodo e in Aragorn dei nuovi miti: il ’77 fu infatti l’anno dei primi “Campi Hobbit”, radicale alternativa ai caotici concerti di derivazione social-comunista che tanto incuriosivano i giovani dell’epoca. Il successo degli eventi organizzati dall’allora Fronte della Gioventù ha senz’altro contribuito a plasmare i movimenti di destra del domani e di conseguenza quella di oggi.
Tolkien e la destra, tra ieri e oggi
La gioventù di molti politici in erba si è effettivamente legata a una visione estremamente personale e derivativa dell’immaginario tolkieniano. Una sorta di “traduzione” dei suoi stilemi in chiave protezionista, con il tema del viaggio sovrastato per valore dall’unione contro il “nemico comune”. Tali tendenze si sono ovviamente protratte anche ai primi del 2000, con l’uscita dei film di Peter Jackson, alimentando discussioni fino a pochi mesi addietro: riassumendo in poche righe vent’anni di storia, si è passati dalla fiera passerella politica alla premiere della trilogia alla guerra contro Amazon e il suo Gli Anelli del Potere, dichiaratamente vittima della deriva woke politicamente corretta. Ma come può un’opera “corretta” nella sua natura intrinseca riuscire ad appetire chi quei valori sembra non aver alcuna intenzione di rispettarli per come sono stati intesi?
La risposta sta nella miopia generale di chi non era dentro quel meccanismo di propaganda pre-populista: cresciuti con le critiche alla modernità di intellettuali come Julius Evola, l’approccio di molti alle opere di Tolkien era già influenzato da un fascino tutto particolare per un certo tipo di immaginario socio-politico. Non è un caso che la mitologia norrena e nordeuropea, chiare ispirazioni per lo stesso Tolkien, fossero anch’esse legate a un apparato simbolico vicino al neofascismo (da qui l’utilizzo delle croci celtiche ai vari raduni giovanili). A un primo sguardo, i pochi mezzi e la grande voglia di prevalere contro il mondo per compiere una missione all’apparenza impossibile sono elementi comuni tanto alla destra quanto a Frodo e soci. Ma le reali differenze di vedute ideologiche tra l’opera di finzione e l’apparato politico si fanno presto evidenti.
La banalità del “male”
Per quanto possa far piacere rimarcare le proprie interpretazioni o elevarle a prova inconfutabile, nulla di quanto scritto da Tolkien apparirà mai come riferimento per certe frange politiche. Per quanto si possa provare a modellarlo secondo le proprie esigenze, il senso profondo dell’opera rimane intoccabile: per Tolkien il potere, in qualsiasi forma, porta alla corruzione e non concede mai la reale forza per raggiungere i propri obiettivi. Non è un caso che questo potere finisca quasi sempre per corrompere i potenti del mondo, senza mai fornire reale forza per affrontare il pericolo incombente. Un pericolo che non è rappresentato dal “progresso” come un futuro da evitare, ma che spinga a smuovere le coscienze per guardare avanti insieme nel modo migliore.
Capire quale “male” si voglia realmente combattere è la chiave per risolvere qualsiasi interpretazione. Tolkien appartiene sì a una destra conservatrice anglosassone, ma è quanto di più lontano possa esserci dal populismo. Nella sua opera, l’autore britannico ha rappresentato come “nemico” l’elemento che più si avvicina a quell’ideologia: la massa deforme e non pensante, vittima dell’annullamento dei protagonismi e della morte dell’individualità. Un potere imprevedibile e pericoloso agli occhi dello stesso autore, specialmente se sotto la mobilitazione di un capo (buono o cattivo che sia). La Terra di Mezzo non è stata concepita come rappresentazione politica, e mai potrà esserlo realmente. Adattare temi e concetti a un determinato modo di pensare, sperando di ottenere una qualche legittimazione, è una semplificazione che dimostra ancora una volta l’importanza di scindere reale e finzione.
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