Il 21 ottobre è diventato il tredicesimo tributario del Prix Lumière, riconoscimento che il Festival Lumière di Lione assegna a una personalità importante del cinema mondiale. Dieci giorni dopo è arrivato al Lucca Comics & Games per parlare della propria carriera e presentare in anteprima la nuova serie Netflix di cui è produttore e uno dei registi, Mercoledì. Parliamo, ovviamente di Tim Burton, cineasta la cui vita professionale è stata a dir poco eclettica, e a detta di molti in declino negli ultimi dieci anni. È veramente così? Proviamo a fare qualche riflessione in merito.
L’animatore ribelle
Nel corso di incontri con stampa e pubblico a Lione, Burton ha ribadito che non lavorerà mai più con la Disney, conclusione a cui è giunto durante le riprese di Dumbo, uscito nel 2019. Un secondo addio, questa volta definitivo, allo studio con cui il regista aveva mosso i primi passi, dandosi all’animazione prima di cimentarsi con il lavoro dietro la macchina da presa. Un sodalizio che si può essenzialmente dividere in tre fasi: il primo periodo di fraintendimenti, con Burton che è un outsider a tutti gli effetti, incompatibile con le sensibilità della major (e difatti viene licenziato per aver girato due corti che lo studio non ritiene di poter sfruttare commercialmente, Vincent e Frankenweenie); la riappacificazione a metà anni Novanta, con il marchio burtoniano, consolidatosi altrove, usato per vendere al pubblico Nightmare Before Christmas di Henry Selick (e, in ottica più autoriale, per puntare agli Oscar con Ed Wood); e il periodo blockbuster dal 2010 al 2019, dove tutto è perdonato grazie al suo successo commerciale per altri studios e, oltre a firmare due remake di classici d’animazione, ha anche la possibilità di rifare, come lungometraggio, quel Frankenweenie che quasi tre decenni addietro gli valse il licenziamento. Ironia della sorte, dalla retrospettiva al Festival Lumière è stato escluso Alice in Wonderland, il suo maggiore trionfo al botteghino, il che la dice lunga su come lo stesso Burton vede quella fase della sua carriera…
Un autore ai margini
Anche in contesti relativamente mainstream come il dittico di Batman o Mars Attacks!, entrambi sotto l’egida della Warner Bros., Burton è sempre stato un cineasta idiosincratico, poco attento alle esigenze di un mercato non del tutto in sintonia con la sua visione del cinema. Emblematico, in tal senso, il suo approccio a Batman – Il ritorno, per il quale ha avuto carta bianca alienando una parte del pubblico, con proteste da parte di genitori i cui figli trovavano eccessivo il tocco grottesco del regista, sostituito per i due film successivi dal ben più rassicurante Joel Schumacher. Un cineasta anarchico, che tra un film molto personale e l’altro corteggia i generi più convenzionali ma con un atteggiamento decisamente ribelle, dalla scelta di Michael Keaton per il ruolo di Bruce Wayne (una strategia osteggiata dai fan prima dell’uscita, poiché l’attore all’epoca aveva fatto principalmente commedie) alla decisione di andare contro il diktat della Warner e, per Mars Attacks!, dare a Jack Nicholson un duplice ruolo che prevede la morte di entrambi i personaggi. Un atteggiamento che lo stesso studio, anni dopo, cercherà di tenere a bada in sede di marketing (con Burton che ha apertamente criticato, ad esempio, i trailer di Sweeney Todd, che nascondevano la componente musical del film).
L’amico pirata
Dopo quello che forse era il segnale più eclatante del rapporto non roseo tra il regista e il blockbuster allo stato puro (Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie, anch’esso non proiettato a Lione), è arrivato Big Fish – Le storie di una vita incredibile, tassello anomalo della filmografia burtoniana perché da un lato percepito da alcuni come relativamente “normale”, mentre dall’altro probabilmente il suo lungometraggio più dolorosamente personale (una storia di padri e figli, con il primo che ama raccontare storie intrise di fantastico, e i genitori di Burton che sono morti poco prima che lui accettasse l’incarico). Questo nel 2003, lo stesso anno in cui l’attore-feticcio del cineasta, Johnny Depp, diventa una superstar grazie al successo inatteso del primo Pirati dei Caraibi. All’improvviso, il duo diventa molto appetibile sul piano commerciale, e viene dato il via libera a La fabbrica di cioccolato, primo di cinque film consecutivi di Burton, tra il 2005 e il 2012, in cui Depp ha il ruolo principale (o, nel caso di Alice in Wonderland, quello usato per vendere il lungometraggio, sottolineando la sua presenza in trailer e locandine e mettendo il suo nome per primo nei credits).
Un percorso sempre più deleterio, perché proprio con la parentesi disneyana del 2010 – gli altri quattro sono tutti targati Warner – diventa evidente quanto l’attore stia cercando di replicare il fenomeno di Jack Sparrow, senza metterci veramente del suo. Il pubblico si stanca, e con il flop di Dark Shadows (a cui Burton però sembra volere ancora bene, avendolo scelto per la proiezione che ha accompagnato la consegna del Prix Lumière) termina un sodalizio iniziato nel 1990. Il ritorno in scena con l’aiuto di Netflix sarà il momento della rivalsa? I segnali incoraggianti ci sono tutti, ma è anche vero che la piattaforma, soprattutto con le serie, non è esente dal viziaccio di soffocare la creatività…
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