Arriveranno nelle sale a breve, dopo essere stati a Cannes e alla Festa del Cinema di Roma. Sono due dei film più attesi, probabilmente fra i migliori dell’anno, e hanno una cosa forte e precisa in comune: The Substance ed Emilia Perèz sono due film di genere duri e puri che però fanno politica – dello sguardo e con lo sguardo, delle idee e con le idee – in modo fiero e diretto, sgombrando il campo da alcuni equivoci legati alla cultura woke.
Primo fra tutti: che i film che sostengono e riflettono le istanze politico-culturali contemporanee siano tutti uguali, tutti generati da un algoritmo, standardizzati sul pubblico delle piattaforme.
Il corpo e le sue ferite
Il primo dei due, nelle sale dal 30 ottobre, è un body horror diretto da Coralie Fargeat e racconta di un’attrice pluri-cinquantenne (Demi Moore) che vorrebbe evitare il viale del tramonto grazie a un siero che permette al suo corpo di rigenerarsi, “partorendo” una versione giovane e migliorata di lei (Margaret Qualley) mentre quella più matura dorme per una settimana. Il secondo è un melodramma thriller per la regia di Jacques Audiard, in Italia a inizio 2025, al cui centro c’è un gangster messicano (Karla Sofía Gascón) che ingaggia un’avvocata (Zoe Saldana) per organizzare il suo cambio di sesso e la fuga dal suo violento passato.
Entrambi i film sono opere che raccontano in modo diretto le istanze politiche della contemporaneità, il nuovo femminismo, la battaglia intersezionale e anti-capitalista, l’identità come fattore fluido e inafferrabile. Eppure appaiono tutt’altro che manuali d’istruzione politica, elenchi di rimostranze e manifesti ideologici: sono film che usano il bisturi del cinema nei loro elementi primordiali, l’azione, la violenza, la suspense, il disgusto, la paura, l’eccitazione e il dolore – l’emozione in una parola, come disse Samuel Fuller. Un’emozione che usa i generi, i codici del cinema d’evasione, per dire cose chiare e forti.
Il rigetto di Dorian Gray
The Substanceè l’opera seconda di una delle più promettenti e convincenti registe contemporanee. Un film che ragiona in modo convergente su alcune questioni centrali nel dibattito odierno, per esempio sul modo in cui la società capitalista usi e getti il corpo delle donne per vendere e cerchi sempre, partendo da uno sguardo maschilista esteso a tutta la piramide commerciale, un corpo sessuale e sessualizzato per potersi rigenerare. Quindi, al corpo vecchio, che non vuole morire o essere dimenticato, non resta che fingersi giovane, restaurarsi come in una sorta di Ritratto di Dorian Gray erotizzato, dare al Capitale ciò che chiede in attesa di una rivoluzione.
E come racconta tutto ciò Fargeat? Attraverso un film che sembra imparare dal miglior Cronenberg (non solo le disgustose trasformazioni del corpo di Moore, ma anche il senso di malattia e contagio, il nitore asettico delle scenografie, la scienza e l’arte come poli catalizzatori delle paure) per colpire lo spettatore, che fa del suo sfavillio visuale il grimaldello per costringerlo – soprattutto se maschio – a riflettere sul proprio sguardo, su ciò che guarda, su come lo guarda, approdando a un trionfale finale in chiave Troma dove tutto il delirio ironico del film trova il suo appagamento.
Almodòvar a ferro e fuoco
Anche Emilia Perèz è un film che funziona come uno specchio, anzi che usa lo specchio come metafora del suo discorso: in cosa consiste la nostra identità, di cosa è fatta? Siamo quello che guardiamo quando ci guardiamo o pensiamo a noi, oppure siamo ciò che gli altri vedono o credono di vedere quando ci guardano? E quale di queste due cose fa più paura? Il cambio di genere sessuale diventa così un simbolo che consente a Audiard di ragionare sul bisogno di agire per gli altri, di cambiare per migliorare la vita nostra e di chi ci circonda, in un luogo, il Messico del narcotraffico, tra i più pericolosi al mondo per le donne.
A un certo punto nel film, Emilia cerca di redimersi dal suo passato fondando un’associazione per ritrovare le centinaia di migliaia di persone sparite a causa della criminalità inarrestabile: è il momento in cui il film rischia di divenire didascalia politica, ma Audiard lo trasforma nell’ennesimo cambio di pelle di questo film transgenre, che passa continuamente dal melodramma accorato della telenovela al crime violento filtrando questi va e vieni narrativi con il collante del musical, che usa note e melodie, anch’esse sempre cangianti, mai stilisticamente fissate, per condurre le emozioni ai vari livelli su cui è strutturato il copione, facendo del film come opera il corrispondente stilistico del suo racconto.
Colpire basso per puntare in alto
Fargeat nell’agone del cinema è entrata da poco, quindi si trova nel pieno di una rivoluzione percettiva e identitaria; Audiard è un maschio etero di 72 anni che però nella seconda parte della sua carriera sta affrontando cambiamenti e transizioni sempre più sorprendenti, in cui il thriller – suo genere d’elezione – vira spesso in luoghi differenti, con interessi socio-culturali differenti, fino quasi a cambiare pelle e sparire in apparenti altrui identità autoriali (Parigi, 13 Arr scritto da Céline Sciamma).
Entrambi hanno mostrato che la consapevolezza delle idee, il bisogno che ogni artista sente (e ha) di intervenire nelle questioni più spinose del presente – ed è un bisogno giusto, oltre che legittimo, checché ne dicano gli amanti del disimpegno – ha bisogno del Cinema, come di letteratura, musica e ogni altra forma di espressione artistica, non come semplice megafono per strillare le proprie idee e nemmeno come patina per rendere il business dell’audiovisivo più accettabile.
Il cinema è, e si torna a citare Samuel Fuller, la macchina da scrivere dei cineasti, l’utensile con cui dare forma alle immagini dentro cui mettere i pensieri, la materia prima delle idee, non la loro mera esecuzione. Se poi qualcuno si “sveglia”, tanto meglio, ma anche solo “dormire” nella culla della Settima Arte, di questa Settima Arte, è un gesto che ha un senso, perché opere simili dovrebbe essere la via e ricordare che la realtà è molto più ampia e importante dell’attivismo social e degli sfoghi reazionari.
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