Non se ne esce. Neanche l’uomo più veloce del mondo riesce a sfuggirle. La nostalgia ha raggiunto anche The Flash, avvinghiandolo nel suo eterno abbraccio. Un abbraccio opprimente, che soffoca, limita e inibisce. Perché anche quando un film sembra spingersi verso il nuovo e rischiare (come The Flash fa), il richiamo sua maestà la Nostalgia ha la meglio. Come il verso di una vecchia sirena che riemerge per inghiottire tutto e tutti. Succede anche in un film figlio di un universo morente come quello targato DCEU, e che dovrebbe avere tanta voglia di staccarsi da quel passato fallimentare. Così non sarà. Perché The Flash si guarda tanto indietro anche quando promette a se stesso di non farlo. Una strana contraddizione che adesso cerchiamo di capire bene.
Lampi di paradosso
Andiamo nel cuore della tempesta di fulmini. Che cosa ci racconta The Flash? Il film di Muschietti, che maneggia traumi familiari dai tempi di IT, non è altro che la storia di un figlio che vuole aggiustare il passato e cambiare il suo presente. Barry Allen vuole salvare la vita di sua madre, la reputazione di suo padre e soprattutto proteggere l’affetto che lo lega ai suoi genitori. Per farlo correrà veloce all’indietro, cercando di cancellare il suo lutto e il suo dolore. No, non ci riuscirà. Perché The Flash insegna a Barry Allen che anche i supereroi falliscono, che il passato non si può cambiare e il dolore non si può cancellare. Morale della favola?
Inutile rimanere avvinghiati al passato. Inutile sguazzare nel trauma. Vivere significa andare avanti, guardare avanti. Sempre e comunque. Se non lo fa uno come Flash, allora è davvero finita per tutti. Una morale che The Flash racconta con piglio anarchico, come se Muschietti si fosse messo a scarabocchiare su un foglio di carta. Un film pazzo, disordinato, con tante idee bizzarre che, piacciano oppure no, almeno provano a proporre un cinecomic diverso dal solito. Almeno fino a quando la Signora Nostalgia torna in scena per rovinare tutto con una grande contraddizione.
La vecchia signora
Rieccola lì, la solita scorciatoia. La via più facile: cercare di esaltare il pubblico con il trucco della nostalgia. Anche quando non ce n’era bisogno. Anche quando film stava prendendo altre strade. Passi pure il redivivo Batman di Keaton come canto del cigno di un vecchio mito. Quello che non torna è il bisogno di aggrapparsi al lato più tossico della nostalgia. Ovvero quello sterile, pigro e fine a se stesso. Nella parata nostalgica che chiude The Flash nella scena dei multiversi appare quasi chiunque: Adam West, Christopher Reeve, George Clooney e persino Nicolas Cage nei panni del Superman mai nato. In pratica la nostalgia di persone che non ci sono più, di film che non sono mai esistiti e di altri che mai avremmo voluto vedere.
È una specie di feticismo nostalgico, figlio della nostra cultura pop così attaccata alle immagini, ai corpi e alle facce delle star. Tutte cose che, spesso, ci legano a ricordi spensierati di tempi andati. Come fossero lampi di un passato felice che per un attimo irrompe nel presente. Ma cosa resta al di là di quella breve vertigine che proviamo nel rivedere quelle facce e quei personaggi? Davvero i cameo di The Flash aggiungono qualcosa al film o, alla fine, finiscono quasi per tradire la morale stessa del film? Si fa presto a bollare tutto come semplice fan service, come grande omaggio alla mitologia DC, perché non crediamo che quella pacca sulle spalle del pubblico basti per farlo uscire dalla sala davvero felice. Quel brivido nostalgico dura un attimo, ma dopo cosa resta?
A noi rimane il timore di una nostalgia tossica di cui siamo stanchi. Perché negli ultimi 15 anni la cultura pop ne ha fatto un abuso quasi nauseante. Assieme alla sensazione beffarda di esaltarci più per il vecchio che per il nuovo. Detto da un film che in realtà voleva solo liberarsi dal passato, sì, è davvero strano.
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