In una scena di The Fabelmans, il padre del protagonista, interpretato da Paul Dano, pronuncia una frase che qualsiasi ragazzino appassionato di cinema si sarà sentito dire almeno una volta nella vita che, parafrasando, suona più o meno così: “Se solo ti interessassi all’algebra come ti interessi del tuo hobby…”.
La storia di Sammy Fabelmans, alter ego del regista Steven Spielberg, è una storia di una famiglia divisa a metà: il lato razionale, coi piedi per terra, composto da dati e informatica rappresentato dal padre Burt, e il lato artistico, fatto di piedi danzanti, note suonate al pianoforte ed emotività di cui la madre Mitzi è assoluta portavoce.
In mezzo c’è quell’hobby che hobby non è mai davvero e che trasformerà il giovane Sammy in uno dei registi più famosi della storia del cinema. Lo farà attraverso film che nascono da quella simbiosi tra padre e madre, con un occhio di riguardo verso quella voce artistica, emotiva, viscerale, ma senza dimenticare quella razionalità necessaria nella creazione.
Come abbiamo raccontato nella nostra recensione di The Fabelmans, l’ultimo film di Steven Spielberg racchiude alla perfezione queste due anime, che si scontrano e fanno a gara per predominare l’una sull’altra. Il risultato è un film sicuramente personale, ma soprattutto egoista, dove forse per la prima volta nella sua carriera Spielberg sembra cedere il suo solito sguardo di eterno bambino, meravigliato della settima arte, per diventare un raccontastorie vecchio e meno energico.
Il figlio e i genitori
Sin dai primi annunci, The Fabelmans era stato presentato come il film di Spielberg più personale, di chiaro stampo autobiografico, lasciando addirittura intendere che il grande regista di Cincinnati volesse appendere la macchina da presa al chiodo con questo film testamento (opzione già scartata dal diretto interessato). D’altronde, con l’abbandono della regia del quinto capitolo di Indiana Jones, la realizzazione del remake di West Side Story – uno dei suoi sogni nel cassetto che non era ancora riuscito a realizzare – e ora un film che si inserisce nel filone nostalgico e biografico che molti registi di passata generazione stanno affrontando, si poteva benissimo intravedere il traguardo di una grandiosa carriera. Alla fine del 2022, Steven Spielberg non ha davvero più bisogno di dimostrare alcunché al pubblico, che l’ha seguito per cinquant’anni e trentaquattro film, alternando film d’intrattenimento che hanno cambiato l’immaginario collettivo e capolavori d’autore che resteranno nella storia del cinema.
Ecco che The Fabelmans sembra voler fare davvero il punto della situazione, con un regista che si guarda indietro e riporta in scena l’inizio di questa carriera, chiudendo l’ennesimo cerchio che riguarda la propria famiglia e il rapporto con i suoi genitori. Da sempre legato alla madre, Spielberg solo in tempi recenti ha via via compreso e riallacciato un rapporto con la figura del padre, il cui ruolo era sinonimo di conflitto e sofferenza. Alcuni dei suoi migliori film rappresentano perfettamente questo scontro e questa incomunicabilità (basti pensare a E.T. L’extra-terrestre o a L’impero del sole per vedere come la figura del padre sia distante da quella amorevole della madre) che lentamente è stata indagata sempre più, a partire dal ruolo della religione in Schindler’s List, sino ai rapporti padre/figlio di Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi o The Terminal. La fine di questo scontro potremmo idealmente rappresentarla in West Side Story, film che si chiude con una dedica al padre. Dedica che si ripresenta in The Fabelmans, dividendola con la madre: il film non è dedicato ai genitori, ma ad Arnold e Leah, sottolineando la loro individualità.
Autoagiografia di un sogno
Perché proprio quelle due anime così inizialmente unite e così distanti poi hanno dato vita alla giovinezza di un ragazzo appassionato di cinema. Che ha fatto tesoro non solo dell’amore, ma anche dell’odio, dell’unione e della divisione, della gioia e della sofferenza per creare una filmografia composta da vere e proprie hit cinematografiche. Diventa quindi ancora più curioso come The Fabelmans, così come il precedente West Side Story, sia diventato un flop al botteghino, incassando in tutto il mondo solo 10 milioni di dollari in più di un mese di sfruttamento e uscendo già in PVOD (almeno in America).
Cifre che non si adattano a Spielberg e che sicuramente nessuno si aspettava, nonostante questo periodo post-pandemico poco propenso a premiare il cinema d’autore, soprattutto vista la materia appassionata del film. Almeno sulla carta.
Perché The Fabelmans, più che un racconto autobiografico assomiglia a un’agiografia della famiglia Spielberg, romanzata – certo – ma così personale, così chiusa in sé stessa e così autocompiaciuta da non poter mai diventare davvero racconto universale. A una prima ora dove la passione per il cinema appare il leitmotiv dominante della pellicola segue una seconda metà più canonica, dove la sofferenza del giovane Sammy appena arrivato in California sembra percepibile solo attraverso gli occhi del suo regista, mai nell’empatia dello spettatore. È il film stesso a renderlo esplicito, quando il conflitto interno alla famiglia diventa una gara di egoismo: da parte del padre, che costringe tutta la famiglia a spostarsi con lui per motivi lavorativi; da parte della madre, che a casa non riceve le dovute attenzioni e si sente ingabbiata dai propri rimorsi; da parte di Sammy/Steven stesso, che trovava uno sfogo e una ragion d’essere proprio attraverso la moviola e i suoi cortometraggi.
Dispiace ma non sorprende che The Fabelmans, risultando un vero e proprio film d’autore come Spielberg non ne aveva ancora fatti, non abbia fatto breccia nei cuori del pubblico più generalista, lo stesso che ha reso Spielberg il genio che è, lo stesso che si sentiva bene nell’osservare il suo marchio di fabbrica, il primo piano di un volto con la bocca spalancata e gli occhi increduli di meraviglia, la Spielberg Face. Qui, invece, la meraviglia appartiene solo al regista, che non intende condividerla con nessuno. Dopo averci regalato numerosi sogni, per Spielberg è arrivato il momento di tenersene uno per sé.
Il vecchio e il giovane
La sensazione, mentre si guarda The Fabelmans, è quella di un regista che appare invecchiato d’un colpo, irriconoscibile dal giovanotto che sorprendeva con Ready Player One o faceva danzare la macchina da presa come in West Side Story. Torna a scrivere, Spielberg, a distanza di vent’anni da A.I. – Intelligenza Artificiale, ma il risultato è la scrittura di un cinema passato, trascorso e finito, troppo classica per piacere davvero, troppo vetusta per coinvolgere sul serio, quasi volesse mettersi in scena facendo un passo indietro, preoccupato del risultato, colpito e ferito dall’apertura di questo viale dei ricordi.
Una vecchiaia che, però, nei suoi limiti, paradossalmente assurge a quella di un Maestro del cinema, come se fosse un tardo film di Fellini che non può (e non vuole) replicare i successi del passato.
Tra vecchiaia e giovinezza si svolge la bellissima sequenza finale del film dove si svolge l’incontro tra il veterano John Ford e il giovane Spielberg a cui viene impartita una semplice e pregnante lezione sul cinema e gli orizzonti (che se rimangono al centro dell’inquadratura rendono il film noioso). Proprio l’ultima inquadratura nasconde la zampata del vecchio leone, la furba ammissione di vecchiaia, le scuse al pubblico e il desiderio ricolmo di nostalgia di essere sempre quel giovane intraprendente. Il protagonista del film cammina verso il futuro, la musica trionfale di John Williams (che potrebbe smettere di musicare film dopo questo titolo: un altro addio che dona a The Fabelmans un’ulteriore ammissione di sipario pronto a chiudersi) lo accompagna. Uno sgraziato movimento di macchina sistema la linea dell’orizzonte e la sposta dal centro dell’inquadratura.
In una manciata di secondi il vecchio regista torna giovane e, finalmente, dopo due ore e mezza, ci ricorda che il suo sogno con noi l’ha condiviso. In tutti questi anni.
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