The Elephant Man è basato sulla storia vera di John Merrick (John Hurt), un giovane affetto da una grave malformazione che vive nei bassifondi dell’East End della Londra vittoriana. Dal salvataggio del Dottor Treeves (Anthony Hopkins) alla schiavitù in un circo di baracconi fino alla sua permanenza al London Hospital, dove diventa una figura di spicco dell’alta società londinese, il film di Lynch racconta le sue vicende ponendo al pubblico interrogativi di moralità: anche quando John è al sicuro in ospedale, viene ancora trattato come un’attrazione per alimentare una sordida curiosità, pur appartenendo ormai a una classe abbiente?

La macabra sequenza iniziale è ricca di immagini da incubo, raffiguranti l’aggressione alla madre di John da parte di un elefante infuriato. L’inquietante tema musicale d’atmosfera circense potrebbe essere scambiato per una ninna nanna infantile, ma poi, gradualmente, il tono precipita in un cupo surrealismo, con particolari della pelle nodosa dell’elefante, combinati con fumo e ombre che affollano lo schermo. Le urla della giovane donna scaraventata a terra sono attutite, soffocate dalle grida distorte dell’elefante e da un continuo e fragoroso rumore di un treno in arrivo.

L’onirismo di The Elephant Man

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

A prima vista, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un film horror e, per molti versi, l’estetica da sogno febbrile tipica di Lynch aderisce a questo presupposto. La sua rappresentazione della Londra vittoriana è cupa e viscerale, un ritratto dell’estrema povertà e dell’ascesa dell’industrializzazione. Dal labirinto di grottesco voyeurismo dei freak show ai crudi meccanismi interni di una vasta fabbrica, il film ritrae la società in uno stato di decadenza morale. Freddo e insensibile, ben lontano dalla visione romantica e speranzosa del mondo di John. L’orrore risiede nella capacità delle persone di essere crudeli e nella tragedia di cui quest’uomo straordinariamente gentile e affabile è vittima solo perché ha un aspetto diverso.

La decisione di Lynch di girare in bianco e nero è stata audace: permette a tutti i personaggi di mescolarsi tra loro sullo schermo, ponendo l’enfasi su forme e contrasti e facendo risaltare ancora di più John. The Elephant Man rimane poi costantemente onirico, con dissolvenze che ci mostrano i momenti più significativi e intimi della vita di John. È molto difficile guardare film su persone emarginate che si sentono isolate, ostracizzate per le loro differenze anziché celebrate per ciò che hanno da offrire al mondo.

La famigerata scena alla stazione ferroviaria rimane straziante a ogni visione, mentre John deve urlare per la sua dignità: “Non sono un elefante. Non sono un animale. Sono un essere umano. Sono un uomo”. È orribile dover assistere al dolore di una persona che soffre così tanto per mano di altri, con gli/le astanti alla stazione che improvvisamente si accorgono di quello che stanno facendo, e il film che fa sì che noi, come pubblico, siamo costretti/e a fare lo stesso. Per quanto queste persone possano essere spaventate o inorridite da John, ciò non è minimamente paragonabile al terrore che lui prova per loro. È questo filo conduttore che Lynch impiega per trasformare la storia di Merrick in una potente meditazione sulla paura e sull’umanità.

Un’anima persa

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

All’inizio degli anni ’80, molti registi avrebbero sfruttato lo shock a cui fu sottoposto il vero Merrick. Ma Lynch, pur essendo notoriamente un eccentrico, si preoccupa solo di assicurarsi che il suo pubblico veda oltre le protesi applicate a Hurt per riconoscere un’anima persa e profondamente spaventata. Vediamo solo un uomo terrorizzato, che sprofonda nel suo minuscolo letto mentre uno sconosciuto gli urla in faccia. Il messaggio centrale che Lynch vuole che portiamo a casa è piuttosto chiaro: la bruttezza interiore è molto più sinistra di quella esteriore.

Ciò che è così spaventoso in questo film non è il volto di John, ma le azioni delle persone che lo circondano. L’infermiera impara gradualmente a prendersi cura di John come qualsiasi altro paziente. Ma il proprietario del circo che rapisce John e lo rinchiude in una gabbia accanto a scimmie feroci, il pubblico che si accalca attorno a John in una stazione ferroviaria nonostante non abbia fatto nulla e abbia persino cercato di nascondere le sue deformità per non spaventare nessuno, gli ubriaconi del posto che portano le donne a vedere John per avere fortuna dopo…sono solamente alcuni segnali della mostruosità dell’uomo.

Qual è la nostra comprensione dell’umanità?

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

Sebbene le protesi di John Hurt siano difficili da ignorare, Lynch assicura che vediamo solo il vero John Merrick, un uomo che vuole sentire parlare della prole delle persone, che vuole andare a teatro e finalmente entrare in contatto con il mondo che lo circonda. Le parole gridate da John nella stazione ferroviaria ci sfidano a chiederci: “Qual è la nostra comprensione dell’umanità?”. Ciò che David Lynch fa in The Elephant Man è farci interrogare su cosa temiamo veramente. Una persona conosciuta come L’Uomo Elefante e che viene esposta in uno spettacolo di fenomeni da baraccone può rientrare nelle ideologie convenzionali su ciò che ci spaventa, ma dopo aver visto questo film è la natura barbarica delle persone a essere davvero spaventosa.

Avidità, scortesia, abusi e apatia: è tutto questo a generare l’orrore del film, non l’aspetto di John. Merrick è visto come qualcosa di meno che umano, ma nella scena in cui un gruppo di ubriachi irrompe e costringe le donne a baciarlo e a sbatterlo in giro come un oggetto, John è l’unico personaggio presente che assomiglia a un vero essere umano.

Un calore profondo

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

Mentre Lynch è probabilmente più famoso per i temi che rivelano un oscuro mondo sotterraneo di inganni, dissolutezza e perversione nascosto dietro a un apparentemente ideale stile di vita americano, come in Velluto Blu e Twin Peaks, The Elephant Man fa l’opposto: rivela decenza e dignità sotto ciò che sembra brutto e degenerato in superficie – e questo riguarda principalmente John Merrick che, a causa del suo aspetto inquietante, viene inizialmente ridicolizzato e umiliato, ma dopo aver trovato un’inaspettata ancora sociale nella persona del dottor Treves riesce a scoprire (e a restituire) gentilezza e compassione umane.

Ciononostante, Lynch non esita a mostrare qui anche un lato più spregevole dell’umanità, in particolare attraverso due personaggi: uno, l’autoproclamato e spietato “proprietario” di Merrick; l’altro, un rozzo inserviente ospedaliero, che non perde tempo a sfruttare John e la sua condizione per trarne profitto. Eppure, il film trasmette un profondo calore, poiché persino l’aristocrazia vittoriana, non estranea a ipocrisia e condiscendenza, si dimostra accogliente e comprensiva nei confronti di Merrick nella visione di Lynch, in particolare attraverso il personaggio della signora Kendal (Anne Bancroft), l’attrice d’élite che fa apparire nobile e cortese persino l’idea narcisistica di regalare la sua foto.

Un uomo non un elefante

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

The Elephant Man, quindi, parla in una certa misura di integrazione. Sebbene Merrick sia un emarginato incompreso, inizia a stringere amicizie sincere e la sua cerchia ristretta diventa meno giudicante e meno incline a paure irrazionali col passare del tempo. L’interpretazione di Hurt fa di tutto per non permettere mai a Merrick di diventare una caricatura e non renderlo esclusivamente oggetto di pietà, poiché l’attore ha brevi momenti di sfacciato divertimento con il personaggio, conferendogli quella personalità tanto necessaria ed evitando così di far sprofondare il film nel territorio scivoloso del sentimentalismo a buon mercato.

A colpire nel segno ci sono anche il trucco di Christopher Tucker, capace di non rendere John ridicolo o troppo spaventoso (il mancato riconoscimento da parte dell’AMPAS dello straordinario trucco ha ricevuto critiche tali da indurre l’organizzazione a creare, l’anno dopo, la nuova categoria “Best Makeup”), e la voce distinta di Hurt, insieme allo sguardo enfatico nei suoi occhi, che permette a The Elephant Man di enfatizzare l’”uomo” piuttosto che l‘“elefante”.

Viaggio nella cattedrale

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

Tutto ciò che abbiamo detto si condensa nei momenti finali del film, quando John stende la testa sul letto prima di addormentarsi, cosa che crede possa ucciderlo. La scena inizia con John che guarda fuori dalla finestra, per poi rivolgere l’attenzione al suo modellino di cattedrale in cartone. John si avvicina a esso e Lynch si concentra sulla piccola firma “John Merrick”: quanto segue diventa il tour personale di John del maestoso edificio. Lynch si muove attraverso i dettagli più minuti della struttura, esplorandola insieme a John. È un momento meraviglioso che segna la realizzazione di un sogno per John, ma è anche un indicatore della sua mentalità confusa, che a sua volta lo porterà alla morte.

Certamente John non crede di aver effettivamente visitato l’edificio, ma la sequenza riflette il fatto che egli crede di essere pronto a visitarlo. Mentre John si allontana dalla sua cattedrale, osserva un quadro sul muro, raffigurante una donna che dorme profondamente nel suo letto. Il quadro era già stato menzionato in precedenza nel film, con John che esprimeva il suo desiderio di dormire come un normale essere umano, pur sapendo che farlo avrebbe causato l’asfissia.

Niente morirà mai

Una scena di The Elephant Man – © C.I.D.I.F.

Ma Lynch fa un ulteriore passo avanti, richiamando una visione del Paradiso che si può vedere sia in Eraserhead che in Fuoco cammina con me, e che riflette il desiderio di un individuo di raggiungerlo. Per Henry (Jack Nance) in Eraserhead, il Paradiso era un ritratto agrodolce che catturava la tradizionale visione angelica mescolata alla paura della sua ambiguità. In Fuoco cammina con me, rappresentava la fuga di Laura (Sheryl Lee) da suo padre e dallo spirito fantasma Bob. Per John in The Elephant Man, il Paradiso diventa l’accettazione da parte di sua madre. In precedenza nel film, John parlava della vergogna che avrebbe provato se sua madre lo avesse guardato.

Ma una volta accettato da Frederick, Marge Kendal e dal resto dell’élite vittoriana, la fuga di John tra le braccia della madre non riflette solo la luce compassionevole che ha rivolto a lei per anni, ma anche la sua stessa accettazione di sé, sia nel suo ruolo nella società che nel suo aspetto. Mentre Lynch ci fa volare tra le stelle verso un alone luminoso, il fumo grigio che ha annebbiato John fisicamente e mentalmente per tutto il film si dissolve invece di espandersi, rappresentando la sua fuga dall’approvazione della società e sfumando in una vaga immagine di sua madre, che pronuncia le parole di accettazione che John si sforzava sempre di sentire.

L’accettazione di una madre

“Niente morirà mai. L’acqua scorre, il vento soffia, la nuvola fugge, il cuore batte. Niente muore”. – La madre di John

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Ilaria Franciotti ha conseguito la laurea triennale in DAMS, la laurea magistrale in Cinema, televisione, produzione multimediale e il master in Studi e politiche di genere all’Università degli Studi Roma Tre. Si occupa di narratologia e drammaturgia del film, gender studies, horror studies, cinema e serie TV delle donne. Insegna analisi e storia del cinema e teoria e pratica della sceneggiatura. Ha collaborato con Segnocinema, è redattrice di Leggendaria e collaboratrice di The Post Internazionale, e ha scritto per diverse riviste di cinema (tra cui Marla e Nocturno). È autrice di Maleficent’s Journey (Il Glifo, Roma 2016), A Brave Journey. Il viaggio dell’Eroina nella narrazione cinematografica (Ledizioni, Milano 2021), ed è curatrice e coautrice di La voce liberata. Nove ritratti di femminilità negata (Chipiùneart, Roma 2021). Dal 2023 è curatrice del podcast Ilaria in Wonderland, interamente dedicato al cinema horror.