Ci sono cose che fanno davvero paura. Come ombre più nere di quelle dei vampiri, possessioni così violente da rendere persino il miglior esorcista pallido in viso, o come il peggiore degli zombie pronto a lasciare l’impronta dei suoi denti come cicatrici. Tutte immagini che noi appassionati di cinema horror consideriamo gusto e sapore artistico, divertimento per il nostro piacere, speranza delle più gradite quando paghiamo un biglietto e ci sediamo sulle poltrone di una buia sala cinematografica. Immagini che appartengono a quella finestra chiamata grande schermo, che durano il tempo necessario a farci sentire, sì, un po’ più vivi del solito, nonostante rappresentino la morte. Nonostante facciano paura. Ma cosa fa più paura? Una metafora narrativa o l’impossibilità di capirla? Il piacere della visione o l’impedimento di poter provare quel piacere?
Arriva in ritardo, dopo un primo weekend dagli ottimi incassi, l’ennesimo divieto a un film dell’orrore deciso dalla commissione per la classificazione delle opere cinematografiche. Un divieto che, di fatto, taglia le gambe, come nei peggiori film horror, a uno dei fenomeni cinematografici dell’anno, un’interessante opera prima, un caso che stava dimostrando, anche in Italia, che non solo esiste un pubblico per questo genere di opere, ma che esiste il piacere di andare al cinema a vedere opere originali e non derivative.
La notizia è questa: Talk To Me è stato vietato ai minori di 18 anni, sancendo di fatto la fine prematura (anche se siamo i primi a voler sperare in un altro finale) di un percorso distributivo che, fino a questo momento, stava facendo faville (primo in classifica tra le nuove uscite della settimana e primo per media copia). Se così dovesse rimanere (il distributore Midnight Factory/Plaion Pictures ha già fatto sapere che intende fare ricorso) questo significherebbe una minor distribuzione (quali cinema sarebbero disposti a tenere a lungo un film vietato ai minori?) e un passaggio televisivo praticamente inesistente. Una scelta davvero controproducente per diversi motivi.
La paura di aver paura
Non è la prima volta che il cinema horror cade sotto la ghigliottina dei divieti esagerati. Qualcosa di simile, in tempi recenti, era capitato proprio a un film italiano, Piove di Paolo Strippoli, giovane regista che, dopo il successo su Netflix di A Classic Horror Story e un’ottima accoglienza alla sezione Alice nella città (sezione dedicata – ricordiamolo – alle nuove generazioni nel contesto della Festa del Cinema di Roma), si è visto marchiare il suo film col maggiore dei divieti. VM18, passato dopo un ricorso al più naturale VM14. Ma nel frattempo era passato un mese da quando il film era uscito al cinema, incassando poco più di 80mila euro. Il tutto perché il suo film era considerato troppo violento, nel raccontare la storia di un ragazzo che sfogava la propria rabbia repressa. Al di là della qualità del film, il messaggio era chiaro: non è questo il tipo di cinema da sostenere.
Talk To Me, seppur di matrice americana, non affronta temi poi tanto diversi, come abbiamo potuto analizzare nella nostra recensione del film: attraverso il genere horror soprannaturale, il film racconta il disagio delle nuove generazioni, il loro sentirsi smarriti senza una forte figura genitoriale ben presente nelle loro vite, il desiderio di svagarsi in modi non del tutto leciti. Tematiche che – perdonerete se ci sentiamo chiamati in causa – riteniamo non solo contemporanee ma anche necessarie. Più che un divieto per proteggere il potenziale pubblico di minorenni (che dubitiamo siano così incapaci di leggere e comprendere un testo audiovisivo, fossero anche accompagnati da un genitore), le motivazioni rilasciate dalla commissione (“la violenza è mostrata in maniera esplicita e insistita in numerose scene e può essere pericolosa per gli individui; inoltre, essendo mostrata e contestualizzata nell’ambito di un gruppo di amici che si divertono di fronte al pericolo che corrono alcuni di essi, tale violenza può generare emulazione ed apparire come desiderabile“) hanno il sapore di un’ammissione di colpa. Forse perché in realtà non c’è il rischio di emulare la finzione quando è la finzione stessa che si basa sulla realtà. Vogliamo nasconderla, allora?
Perché la sensazione è quella di obbligare a nascondere la paura. Dimenticandosi, come se non bastasse, che il cinema (così come l’arte in generale) non deve essere per forza di stampo educativo (anche se gli horror non hanno mai mascherato una certa dose di morale). I film non insegnano, i film mostrano. Sarà che abbiamo sin troppa fiducia nel pubblico, ma riteniamo che la provocazione così come la violenza rappresentata sullo schermo (in ogni sua forma) non sia mai “pericolosa per gli individui”. Perché provare paura risveglia la nostra coscienza, perché provocare significa stimolare, e noi andiamo al cinema per guardare uno schermo, usando gli occhi. Aprendoli, non tenendoli chiusi.
Morti viventi senza voce
Mettendo da parte qualche fugace fenomeno cinematografico che ciclicamente ci lascia ben sperare sullo stato di salute della sala cinematografica, non ce la sentiamo di dire che, in questo periodo post-pandemico, il botteghino si sia risollevato alla grande. Con franchise, remake e sequel che stanno finendo il loro corso, c’è bisogno di offerta che possa davvero interessare il pubblico. Le opere originali sono difficilmente vendibili, ma quando intorno a loro si è costruito un buzz mediatico tale da poter regalare qualche boccata d’ossigeno agli esercenti e il passaparola è positivo ci chiediamo a che pro interrompere la magia. Il successo italiano di Talk To Me era uno di quei piccoli momenti positivi che avrebbe fatto bene a tutti: agli esercenti, alla distribuzione, al pubblico stesso, persino al genere horror che negli ultimi anni sembra vivere una seconda giovinezza, ma avrebbe contestualmente bisogno di qualche novità.
Vietare la possibilità di usufruire un’opera del genere al maggior numero di persone è semplicemente controproducente anche per l’industria stessa. Certo, con questo non vogliamo assolutamente dire che un film come Talk To Me avrebbe le possibilità di bissare un successo come quello del recente Barbie e siamo consapevoli che, per sua stessa natura, il film non è a disposizione di un pubblico vasto. Proprio per questo un visto Vietato ai minori di 14 anni (come era inizialmente) poteva trattarsi di un ottimo compromesso (e anche il più comune: molti film davvero violenti si sono “accontentati” di questo consiglio di visione), che evidenziava qualche contenuto forte al suo interno, ma non impediva anche dal punto di vista economico una tale frenata.
Tra tutte le sconfitte di questa storia, una in particolare fa parecchio male. Nel film il gruppo di amici usa una misteriosa e magica mano per mettersi in contatto con gli spiriti dei defunti. Per quanto terribili alla vista, gli spettri sono di per sé innocui prima che siano gli stessi giovani a invitare loro a parlare e a farsi possedere. Lo dice anche il titolo di questa speciale opera prima: parlami. Ecco, in questa storia in cui un gruppo di adulti sceglie cosa i giovani potrebbero o meno vedere in una sala cinematografica, preoccupati di valori educativi, protettivi o morali, denotando per l’ennesima volta un problema di comunicazione tra le diverse generazioni del presente, nei riguardi di un film che proprio sul dialogo e sul “mettersi in contatto” ha il suo fulcro tematico, la sensazione è quella di aver stretto quella mano paranormale, invitando il morto spettrale a parlarci e aver ricevuto in cambio un silenzio senza voce.
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