Con la Diana Spencer interpretata da una strepitosa Kristen Stewart, candidata all’Oscar per questo ruolo, Pablo Larraín ha dato vita ad un nuovo ritratto al femminile di resistenza al potere, dopo l’altrettanto sorprendente Jackie Kennedy di Natalie Portman del 2016. Si tratta in entrambi i casi di giovani donne entrate in contatto diretto con il potere, in questo caso incarnato dai loro mariti e da quella congerie di personaggi che ruotano attorno alle persone di potere e che ne intercettano e amplificano il carattere oppressivo e persecutorio. Le modalità di reazione e resistenza a quel potere avvengono però in maniera diversa in Spencer e in Jackie. Vediamo come.
Ecco cosa succede quando una forza irrefrenabile incontra un oggetto inamovibile
Le parole che il Joker di Heath Ledger rivolse a Batman ne Il cavaliere oscuro sembrano attanagliarsi perfettamente alla Diana messa in scena da Larraín e Stewart. L’irrefrenabile forza messa in atto dalla famiglia reale, con tutto il corredo di imposizioni opprimenti, rigide etichette e astrusi rituali (si veda quello della bilancia) si trova per la prima volta a sbattere contro il carattere indomito della giovane Diana che, dopo anni di rassegnata e dimessa sottomissione, prende consapevolezza di sé e si erge a muro contro i diktat della famiglia reale, che si inseriscono negli aspetti più privati e intimi della sua vita.
La scena del confronto tra la principessa del Galles e il principe Carlo è emblematica in questo. Con il lungo tavolo da biliardo a dividerli fisicamente e metaforicamente, Carlo enumera le regole non scritte a cui debbono attenersi tutti i membri della famiglia reale, che il popolo non vede come persone ma come simboli. È qui che Diana punta i piedi, anzi i pugni, in un’espressione fisica di insofferenza che condensa efficacemente, in un unico gesto, tutto lo spirito del film.
È in questo sentimento di insofferenza, anche fisica (il continuo rigetto del mangiare), sottolineata così bene sia dall’intensa interpretazione della Stewart che dalla messa in scena di Larraín, con la camera a mano spesso addosso all’attrice, o con avvolgenti movimenti di macchina che sembrano circondarla in spire minacciose, che si esprime maggiormente la resistenza di Diana al potere. Anche la scelta di un formato di ripresa più ristretto, cioè 1,66:1 ovvero decisamente più vicino a quello del vecchio 1,33:1, cioè il famoso 4:3 televisivo, è vicino all’idea di una gabbia che imprigiona anche visivamente la protagonista.
L’elaborazione di un lutto privato e pubblico
La Jackie del film omonimo si trova in una differente situazione ed è attraversata da un diverso sentimento. Suo marito, John Kennedy, è stato barbaramente ucciso e, nel giro di pochi giorni, la giovane Jacqueline Bouvier si ritroverà esclusa da quel consesso di potere a cui, volente o nolente, ha preso parte, o di cui è stata semplicemente l’orpello, subendone anche lei i meccanismi. I suoi rapporti con l’apparato di tale potere, che si muove repentinamente per sostituire il marito con Lyndon Johnson e per cercare di imporre funerali più sobri per ragioni di sicurezza, somigliano a quelli tra Diana e la servitù di Sandringham House, la residenza invernale dei Windsor. Anche in Jackie i meccanismi del potere impattano contro un’altra forza irremovibile, che imporrà dei funerali sfarzosi, con l’uso di carrozza e cavalli e un lungo interminabile corteo che attraversa le vie di Washington. Se per un primo momento Jackie tergiversa e sembra convincersi, per la sicurezza dei suoi figli, a scegliere un più sicuro funerale in auto per le esequie del marito, poi anche in lei, come in Diana, l’insofferenza esplode davanti al responsabile della sicurezza dei servizi segreti e al suo ennesimo ‘consiglio’, tornando sui suoi passi, e regalando dunque ad un’intera nazione il funerale che si aspettavano per il loro re ucciso.
È la stessa Jackie però, e in questo lodiamo Larraín e lo sceneggiatore Noah Oppenheim per aver reso complesso e ambiguo il personaggio, ad ammettere di non sapere se la scelta di un funerale così sfarzoso rientri nella volontà di regalare al popolo un rituale di cui avevano bisogno, o se invece non sia altro che lo specchio della sua vanità, un ultimo colpo di coda, prima di uscire dalla scena dei Kennedy e delle stanze del potere della Casa Bianca.
Le stanze vuote del potere
In entrambi i film assistiamo ad un momento liberatorio, di forte impatto visivo ed emotivo: le due principesse (ci sentiamo di ascrivere Jackie alla stessa categoria di Diana, anzi in questo caso regina, per la metafora di Camelot utilizzata nel film) vivono un istante di estrema libertà, nel momento in cui si aggirano libere per le stanze vuote del potere. Jackie esplora la Casa Bianca vuota, dopo i funerali, cambiandosi continuamente di abito e preparandosi lei stessa da mangiare, fumando, bevendo e ascoltando musica. Diana, sull’orlo del suicidio nella sua vecchia casa di famiglia, si immagina di vagare e ballare per i corridoi e le stanze di Sandringham House, esprimendo tutta la sua insofferenza verso le costrizioni della famiglia reale, tramite gesti nervosi, mosse di danza che sono più uno sfogo fisico che non una coreografia studiata.
In tutti e due i casi le donne abitano le stanze vuote del potere e, muovendosi come anime libere da vincoli corporei, rendono vivi quegli ambienti, solitamente maschili, funerei e oppressivi. Diana e Jackie approfittano di un momento di assenza di quel potere tutto maschile per riaffermare la loro femminilità e riappropriarsi di quegli ambienti, solitamente infestati dal potere, sempre maschile. Per Diana questo avviene solo nella sua mente, mentre per Jackie è realtà.
Spettri del potere
Non è un caso se abbiamo usato la parola infestazione. La Casa Bianca è infatti abitata dagli spettri dei precedenti presidenti americani, a partire soprattutto da Lincoln, figura fondamentale per la storia americana, punto di riferimento politico da prendere a esempio per John Kennedy, nonché presenza spettrale con cui fare i conti per Jackie, che impone all’apparato del potere americano un funerale sull’esempio di quello sfarzoso di Lincoln.
Nella Sandringham House, vero e proprio castello da racconto gotico, Diana dialoga addirittura col fantasma di Anna Bolena, con cui si identifica per il suo percorso di martirio, imposto da Enrico VIII che le fece tagliare la testa per una supposta infedeltà, lui che amava a sua volta un’altra donna. Poco importa se lo spettro sia presente davvero oppure se si tratti solo di una proiezione di Diana. Ciò che accomuna le due pellicole è il carattere fantasmatico degli ambienti del potere, la casa Bianca e il castello dei Windsor, carattere che ben inquadra la modalità persecutoria e infestante con cui il potere si appropria degli ambienti e delle persone. Nel film di Diana infatti la modalità narrativa da fiaba horror non a caso è esplicita, come sottolineato già in molte recensioni, e si riconnette appunto al tema della evanescenza, impalpabilità e ineluttabilità del potere.
Principesse che si salvano da sole
Se abbiamo voluto dare anche a Jackie un carattere di regalità è perché entrambi i personaggi rispondono, almeno in parte, all’archetipo della principessa da salvare, tenuta prigioniera in un castello. Nelle fiabe tale personaggio rappresenta spesso l’anima del protagonista che deve maturare e giungere ad una piena consapevolezza di sé, liberando la propria essenza più vera dai suoi vincoli psicologici. Nel caso di Diana e Jackie, le due donne trovano in loro stesse la forza di liberarsi dai vincoli ed emanciparsi da un potere che le vorrebbe sottomesse e acquiescenti.
Jackie lo fa tramite un’intervista al giornalista di Life, Theodore R. White, interpretato da Billy Crudup, in cui le parti si capovolgono: se all’inizio è il reporter a dominare la situazione con domande insinuanti e considerazioni sarcastiche e affilate, poi Jackie riesce a ribaltare la situazione e a raccontare la sua verità, nonché a imporre il suo carattere volitivo e indomito, così diverso dalla Jackie del filmato istituzionale sulla Casa Bianca che abbiamo visto, ricostruito, nel corso del film.
La ribellione di Diana, seppur realmente avvenuta, porterà purtroppo alla morte. Ma come fece Marco Bellocchio in Buongiorno, notte (2003), in cui mise in scena un Aldo Moro libero dalle brigate rosse, Larraín re-immagina la vicenda privata di Diana quasi volesse riscrivere la Storia, regalandole/ci un finale più spensierato in cui la principessa triste, divenuta finalmente felice, riesce a sottrarre anche i figli alla nefasta influenza della corona inglese.