Una voce dall’altro capo del filo di un telefono e un volto misterioso nascosto fra le immagini sgranate di un Super 8. Audio e video: i due canali attraverso i quali il soprannaturale fa irruzione nella realtà, e in entrambi i casi come testimonianza di un eccidio. La vista e l’udito costituiscono dunque gli aspetti complementari dei due horror più apprezzati nella carriera del regista e sceneggiatore Scott Derrickson: Sinister, che esattamente dieci anni fa si trasformava in un piccolo cult del genere, e Black Phone, appena uscito nei cinema internazionali con un’ottima accoglienza dal pubblico. Mentre Black Phone, basato sull’omonimo racconto di Joe Hill, sta offrendo la sua meritoria dose di brividi agli spettatori nelle sale, Sinister può essere recuperato in home video o in streaming nel catalogo di Midnight Factory, uno dei canali di Amazon Prime Video.
Registrare l’orrore: la morte in Super 8
Fra i titoli più apprezzati dell’ormai celeberrima casa di produzione Blumhouse, Sinister viene realizzato nel 2012 con un modestissimo budget di tre milioni di dollari (in tutto il mondo ne incasserà quasi novanta milioni). Per Scott Derrickson, in precedenza al timone di due film dall’ampio successo commerciale, ma tutt’altro che indimenticabili (The Exorcism of Emily Rose, del 2005, e il remake di fantascienza Ultimatum alla Terra, del 2008), si tratta quindi di un’affermazione tra le nuove firme più promettenti dell’horror, in coppia con il suo co-sceneggiatore di fiducia C. Robert Cargill. Al centro della trama di Sinister ci sono le ricerche condotte da Ellison Oswalt (Ethan Hawke), autore di best-seller del filone true crime, che si è appena trasferito insieme alla famiglia in una cittadina della Pennsylvania allo scopo di raccogliere materiale per il suo prossimo libro.
Poco tempo prima, infatti, la piccola comunità di Chatford è stata il teatro della strage degli Stevenson, ritrovati impiccati a un albero del loro giardino con l’eccezione della piccola Stephanie, che sembra scomparsa nel nulla. Determinato a far luce sul massacro degli Stevenson, Ellison porterà avanti la propria indagine grazie a una macabra scoperta: una scatola di pellicole in Super 8 con le sequenze di una serie di omicidi. Mescolando narrazione tradizionale e tecnica del found footage (popolarissima, all’epoca, sull’onda dei vari The Blair Witch Project e Paranormal Activity), Scott Derrickson costruisce pertanto un horror claustrofobico, che si svolge quasi interamente nella nuova casa degli Oswalt e in particolare nello studio in cui Ellison, sempre più isolato dal resto del mondo, proietta i filmati immergendosi in un abisso di atrocità.
Se la visione diventa ossessione
Se c’è un richiamo specifico in Sinister, più che al cinema di genere di inizio millennio (di cui comunque sono ripresi alcuni elementi canonici) è probabilmente a Blow-Up. Nel classico di Michelangelo Antonioni del 1966, il personaggio di David Hemmings osservava le fotografie scattate a Maryon Park fino ad accorgersi degli indizi di un delitto. Sinister, in maniera per certi versi analoga, si propone anch’esso come un film sullo sguardo: l’orrore non si manifesta in maniera diretta (se non in una manciata di scene, tutto sommato meno incisive), ma laddove Ellison sceglie di vedere, e quindi rivivere, le stragi del passato. Mentre la verità, come in Blow-Up (o nel suo ‘gemello’ di Brian De Palma, Blow Out), si cela nei dettagli da ingrandire, nei riflessi o nelle ombre che attirano l’attenzione – e l’ossessione – del protagonista.
Perché ovviamente Sinister, come gran parte delle opere horror, è pure il racconto di un’ossessione: la volontà quasi vampiresca di Ellison di tuffarsi nella mostruosità (e cosa c’è di più mostruoso dell’irruzione nella quiete domestica e della distruzione dell’unità familiare?), con un’analisi scientifica che finisce per somigliare a un oscuro rituale spiritistico le cui vittime sono condannate a rivivere e a morire notte dopo notte. Un po’ come accadeva al profiler interpretato da William Petersen in uno dei migliori thriller di sempre, Manhunter di Michael Mann, al cui memorabile incipit Scott Derrickson riserva fra l’altro una citazione piuttosto evidente: a produrre inquietudine è soprattutto l’idea che il protagonista condivida lo sguardo dell’assassino, e con lui anche noi spettatori. È una forma di empatia che sconfina nei territori dell’osceno, l’atto di hybris che non resterà impunito; la coscienza che, mediante il potere delle immagini, il Male saprà farsi strada fino a noi.