In occasione della Giornata della Memoria che cade come ogni anno il 27 gennaio, ripercorriamo assieme il percorso cinematografico intrapreso da Schindler’s List, capolavoro diretto da Steven Spielberg che ha debuttato nelle sale statunitensi a partire dalla fine del 1993. Un film-testimonianza che tracciava al tempo della sua uscita uno spartiacque storico nella maniera di raccontare gli orrori indicibili dell’Olocausto e di sensibilizzare le nuove generazioni sull’eredità gravosa che portava su di sé la scellerata politica antisemita del regime nazista. Tratta dal romanzo “La lista di Schindler” di Thomas Keneally e a sua volta ispirata ad un’incredibile storia vera, la pellicola diretta dal regista premio Oscar è ancora oggi la pietra di paragone più emblematica nel voler raccontare le pagine insanguinate della Shoah attraverso il mezzo cinematografico. C’è stato un prima e un dopo Schindler’s List, un’eredità ingombrante che ancora adesso getta costante la sua ombra nella vasta produzione di celluloide dedicata all’Olocausto. Vediamo perché.
Un film senza precedenti
Prima dell’avvento nelle sale di Schindler’s List l’Olocausto sul grande schermo non aveva vissuto una vita facile. Certo, testimonianze audiovisive preziosissime erano nate dalla mente di autori e titoli straordinari: impossibile non pensare al crudo cortometraggio Notte e nebbia di Alain Resnais del 1956, lo strazio della Sophie interpretata da Meryl Streep in La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula, oppure lo storico documentario Shoah (1985) di Claude Lanzmann; nessun lungometraggio sull’argomento però ebbe cassa di risonanza così forte come quello diretto da Steven Spielberg. Tratto dal romanzo omonimo che il regista aveva letto ben dieci anni prima della realizzazione del suo capolavoro, Schindler’s List ha saputo fondere con inedita maestria e trasporto emotivo le istanze squisitamente documentaristiche sull’Olocausto senza dimenticare l’elemento che da sempre aveva contraddistinto il successo planetario dei suoi film precedenti: il lieto fine.
Un barlume di speranza che nasce innanzitutto dal percorso di redenzione di Oskar Schindler, personaggio veramente esistito nella Germania nazista che nel corso degli anni ’40, da industriale senza scrupoli e affarista, è riuscito a salvare oltre 1200 operai ebrei della sua fabbrica di oggetti smaltati dalla follia disumana del campo di concentramento di Auschwitz. Grazie al suo gesto, oltre 6000 discendenti degli uomini e donne salvate da Schindler vivono ancora attorno al globo. Una testimonianza audiovisiva che attraverso il mezzo cinematografico diventa monito per le generazioni future: la memoria collettiva sugli orrori dell’Olocausto presto si spegnerà con il trapasso degli ultimi sopravvissuti, sta dunque a noi cogliere l’eredità di tale evento e fare in modo che abomini di tale portata non accadano mai più.
Chi salva una vita, salva il mondo intero
Un’urgenza, quella del regista, che lui stesso sapeva di non poter più protrarre nonostante le difficoltà produttive del film, il fardello psicologico di dover raccontare con sguardo spietato e allo stesso tempo poetico l’orrore della Shoah, mentre tentava negli stessi mesi di terminare la post-produzione degli effetti visivi di un altro suo capolavoro seminale: Jurassic Park, che avrebbe debuttato nelle sale di tutto il mondo nello stesso, fatidico 1993. Annus Mirabilis per Steven Spielberg, primo testimone di una pellicola spartiacque che da lì a poco avrebbe sensibilmente cambiato la percezione stessa dell’Olocausto non solo al cinema ma nell’immaginario collettivo stesso.
“Chi salva una vita, salva il mondo intero.” Un monito che dalle parole sacre del Talmud si sposa alla perfezione con le ambizioni del lungometraggio del regista americano; raccontando attraverso l’eleganza e la forza spiazzante del bianco e nero di Janusz Kaminski l’eccidio nazista contro la popolazione ebraica del tempo, Spielberg si fa carico di riportare in vita non soltanto un racconto di salvataggio e redenzione di cui pochi erano a conoscenza a quel tempo, ma trasporta coscientemente sulle sue spalle tutto il peso della storia, sia quella con la esse maiuscola che quella cinematografica. Perché è lecito affermare che l’Olocausto sul grande e piccolo schermo, dopo l’orrore in bianco e nero di Schindler’s List, non è più stato lo stesso.
Oltre il tunnel dell’orrore, la redenzione
Il film-testimonianza di Steven Spielberg è tuttavia (seppur nella misura che gli ha consentito la natura della pellicola e i temi affrontati) un’opera cinematografica strettamente vicina alla sensibilità artistica dell’uomo dietro la macchina da presa. Facendo tesoro dei commoventi racconti dei sopravvissuti e delle scioccanti immagini dei campi di concentramento del documentario Shoah di Claude Lanzmann, Spielberg mette in scena un film apparentemente contradditorio nella forma e nei contenuti: da un lato terrificante rappresentazione delle violenze e degli impronunciabili orrori perpetrati dai nazisti ai danni della popolazione giudaica, dall’altro storia di redenzione che non rinuncia a momenti di grande lirismo e poesia di celluloide.
Sprazzi di realismo magico che avevano già imbevuto precedenti pellicole dirette dal regista (basti pensare a come Spielberg tratta la devastazione della bomba atomica nel suo L’impero del sole con il giovanissimo Christian Bale) e che ne avevano decretato il marchio di fabbrica anche in opere cinematografiche lontane dall’avventura e dalla fantascienza. In Schindler’s List, il cineasta trova scampoli di salvezza e redenzione dal cupo orrore in bianco e nero della Storia attraverso l’uso del colore; che sia una bambina con un cappotto rosso acceso che vaga spaurita tra le strade del Ghetto di Cracovia o il liberatorio finale che da incubo black and white si tramuta in sogno ad occhi aperti in Technicolor omaggiando i passaggi cromatici de Il Mago di Oz, Spielberg trova speranza oltre il tunnel degli orrori del passato e una calorosissima accoglienza di critica, pubblico e Oscar.
Schindler’s List preserva la memoria collettiva
Affidandosi ad uno script solido di Steven Zaillian e da un cast affiatatissimo costituito dal premio Oscar Ben Kingsley e dalle nuove promesse del cinema british Liam Neeson e Ralph Fiennes, Steven Spielberg realizza il documento audiovisivo definitivo sulla tragedia umana della Shoah. Un’opera cinematografica crudelmente immersiva che costringe lo spettatore nel corso delle sue tre ore di durata a rivivere con inaudita verosimiglianza il Male scaturito dalla follia omicida della burocrazia nazista del tempo; una pagina nera per la storia dell’umanità che il cineasta restituisce agli spettatori di tutto il mondo e alle generazioni future come imprescindibile testimonianza volta a preservare la memoria collettiva sull’orrore senza nome dell’Olocausto.
Se Schindler’s List ha spalancato i cancelli, pellicole successive come La vita è bella di Roberto Benigni e Il pianista di Roman Polanski non possono che ringraziare il minuzioso e sentito lavoro nell’ombra di Steven Spielberg, autore capace di sdoganare, forse una volta per tutte, un argomento di grande sensibilità consegnando all’immaginario collettivo uno spartiacque di rilevanza culturale immensa. Eredità artistica che non poteva che essere attribuita ad un uomo dietro la macchina da presa che il cinema lo aveva già cambiato per sempre.