Forse nessuno come Ryūsuke Hamaguchi, almeno al giorno d’oggi, sintetizza al meglio quello che è stato ed è, attualmente, il cinema giapponese. È probabilmente l’unico in grado di mantenere, con coerenza, i piedi saldi nella tradizione cinematografica nipponica ma allo stesso tempo di non limitare il suo sguardo e di portarlo sempre dove molti altri non arrivano.
Il cinema tutto, non solo il Sol Levante, aveva e ha bisogno di un autore così, allineato al passato ma con uno sguardo all’uomo e alla donna moderna, ai loro sentimenti e al modo in cui il destino e gli eventi ne condizionano l’esistenza. Hamaguchi raccoglie tutto il frutto del lavoro della precedente generazione di cineasti nipponici – da Kore-eda a Kawase – e lo riversa su un mondo diverso e che necessita più che mai di scambi umani, di comunicazione e condivisione. E l’uscita nelle sale italiane dell’ottimo Il male non esiste ci sembra l’occasione migliore per riflettere sulla poetica dell’autore
Il tempo del vissuto
Quella di Hamaguchi è una ricerca che mette sempre al centro del discorso l’essere umano. Con esso, poi, ça va sans dire, ciò che vuol signidica vivere, con annesse preoccupazioni, gioie e dolori, la ricerca di un’identità personale e l’impossibilità di conoscere a fondo l’altro. Il suo cinema è caratterizzato così da una speciale cura nei confronti del dettaglio psicologico, da una peculiare forma di concentrazione sui caratteri dei suoi personaggi. Un gioco di sfumature pronto ad esplodere improvvisamente o destinato a restar soffocato. Due facce della stessa medaglia, rintracciabili in ogni identità indagata. È forse per questo che si potrebbe identificare, almeno nella prima parte di carriera, un fil rouge narrativo e tematico dal sapore melodrammatico, complesso ma non per questo meno schietto.
Sono gli anni di Passion o Intimacies, le cui scorie si riverseranno in Happy Hour o Asako I & II; gli elementi del melò ci sarebbero tutti ma ciò che il regista compie è una decostruzione di essi: capovolge le aspettative e i topoi del genere, prende le relazioni e la vita senza precostruzioni, le definisce passo dopo passo ed evita di dare coordinate chiare e precise. Ciò che intende catturare è una condizione umana sia tragica che comica, leggera e drammatica, che trova una pace, anche se momentanea, nella comunicazione e nei rapporti con gli altri, nelle connessioni e nelle relazioni.
Aspetti che superano i limiti, a patto che si possa definirli tali, dell’originalità e del cliché più convenzionali. Perché nelle mani di Hamaguchi vengono divorati e rigettati sotto vesti nuove, più attente alla forma – sempre rigidamente raffinata e attenta a non debordare con virtuosismi, quasi verso astrazione e l’annullamento onirico della dimensione spaziale – ma soprattutto al tempo. Il suo modo di esporre e mettere in scena, così meticoloso nell’osservazione documentaristica (proprio una trilogia di documentari sulle conseguenze della catastrofe di Fukushima, diretti insieme a Sakai Kô, cambiò il suo modo di percepire e ritrarre l’interiorità e la realtà), cerca programmaticamente di non trascurare nulla, allunga a dismisura le sequenze e il dialogo polifonico, permette al flusso di scorrere, lo segue e lo accompagna senza pensare di poterlo piegare.
Così nascono opere fluviali, dalla durata apparentemente proibitiva – Happy Hour supera le 5 ore – estremamente coerente però con ciò che il cineasta vuol dire, ciò che intende estrapolare, equilibrate sapientemente nei tempi. Il melodramma, accentuato o meno, sta nel quotidiano e nelle piccole cose. E per rintracciarlo, queste ultime vanno assecondate. Non ci saranno certo risposte e sovente restano pur più dubbi di prima (vedasi Asako I & II, nel quale un po’ tutto resta sospeso a metà tra lucido e irreale, coesistenti in equilibrio) ma ciò che si solidifica è la consapevolezza che serve, solo, continuare a vivere, alla ricerca del contatto altrui.
Destabilizzazioni improvvise e intime negoziazioni
Hamaguchi è sempre stato attratto dai momenti di rottura e dagli “incidenti” di percorso. È lì che nasce la confusione esistenziale, quando l’essere umano non può più far nulla e deve scontrarsi con l’amaro caso e un’imprevedibile coincidenza, che ne ostacola i piani, la rigidità e il programmato svolgimento della vita – specie in una società, quella nipponica, meno aperta nei confronti del cambiamento improvviso. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo, pronto a scardinare le difese, mostrare lo sfasamento e la vulnerabilità del relazionarsi con la verità. Sono quei momenti di disordine che generano incomprensioni, fanno riemergere drammi e paure che mettono a nudo davanti ad una società, ad un modo di apparire e alle aspettative degli altri. Ma soprattutto gettano uno sguardo sull’io, su a quello che si pensa di essere.
Situazioni che vanno dalle più comuni (la perdita di un caro, un divorzio, un incontro inaspettato) a quelle più bizzarre (le idee dietro progetti come Asako I & II o Heaven is Still Far Away), realismo rohmeriano e surrealismo, utili entrambe per far emergere qualcosa di nuovo, per tracciare una traiettoria psicologica e fisica insondata, che dice e contraddice. Perché anche l’assurdo o l’artificio – come la performance e la finzione – riescono spesso a far emergere catarticamente il reale, qualcosa di nascosto, represso o dimenticato, i fantasmi delle opportunità mancate o di una vita passata. Interrompere la routine, generare un effetto a catena che catapulta davanti al non detto, come accade, ad esempio, in Passion. Hamaguchi, così, indaga anzitutto l’agrodolce natura degli eventi, gli attimi che precedono la riflessione, prima di fiondarsi su di essa. E lo fa con estremo rispetto e ammirazione per il destino e per quei casuali fuochi che accendono il quotidiano, perché senza essi non si creerebbe quel cortocircuito necessario alla sopravvivenza e a ritrovare la propria intimità.
Recitare l’immagine, ritrarre la parola
I sostegni portanti del suo cinema trovano un collante in quello che pare il vero fondamento della poetica dell’autore, la maniera con la quale i suoi personaggi comunicano. Non di rado si è, infatti, presa in considerazione la maestria nel dirigere attori, molto spesso, non professionisti (frutto di un’intensa attività nei laboratori teatrali). Questo aspetto appare fondamentale per comprendere l’idea alla base della comunicazione nella sua opera. Hamaguchi sembra vedere nei suoi stessi attori la storia, come se essa nascesse direttamente da loro. Quando recitano non sono soltanto attori, sono soprattutto individui al pari dello spettatore. Mentre traspare ciò con forza, rievoca quel labile confine tra pubblico e privato di Cassavetes e il suo modo di tirar fuori l’interiorità e l’intimità dei personaggi con semplicità.
Così come, diegeticamente, i protagonisti recitano e fingono per rivelarsi poi onesti, gli attori reali rispecchiano la persona. Il cinema di Hamaguchi, del resto, riformula i confini tra autentico e performativo, li fonde e li confonde, si pone come saggio documentaristico sull’essere umano – si veda Intimacies, lunga rappresentazione a metà tra fiction e documentario, nel quale vita e performance teatrale si ibridano a vicenda. Un umano che, come spesso succede nella sua filmografia, non ha sempre bisogno di enunciare per comunicare. Se i discorsi sono abbondanti e prolungati – ciò lo avvicina molto, ad esempio, a Hong Sang-soo e soprattutto a Rohmer – colpiscono soprattutto i silenzi e le pause, che come in una partitura musicale giocano un ruolo fondamentale.
Segni non solo di mediazione ma essi stessi significanti semiotici al pari della parola. Quest’ultima, difatti, nel cinema del cineasta giapponese, resta sempre centrale ma in forme mai definitive e complete, intermittente ed esposta in frammenti accennati e afflati interrotti. È qui che il vuoto, il silenzio, gioca le sue carte, spoglia e ricostruisce un nuovo senso e una rinnovata forma di comunione comunicativa osmotica, come nella sequenza delle sigarette in Drive my Car; il momento in cui due anime si connettono intimamente dopo aver detto (ma soprattutto ascoltato) tutto, perché il gesto, a volte, tocca tasti ai quali il tessuto dialogico non può arrivare. Mettere a nudo la propria anima sembra possibile solo attraverso un ossequioso silenzio, con rituali privi di parole che concretizzano i sentimenti inespressi, attuando una pace interiore data dalla liberazione e dalla conseguente maggiore accettazione del passato e delle sue ombre.
Corpo che diventa centrale per trasmettere ciò che il linguaggio verbale non può comunicare. Ancora nel film premio Oscar, tratto da una storia breve di Haruki Murakami, appare esemplare la scelta di eseguire Zio Vanya in lingue diverse nella stessa scena, addirittura attraverso la lingua dei segni, simbolo definitivo della rigogliosa ricerca sul rapporto immagine-parola. Un cinema di parola, quindi, ma anche di silenzi, sguardi e movimenti. Di corpi che, con costante attenzione prossemica alle possibilità date dalla mimica facciale e dalla gestualità, diventano utili a ricostruire spazi e caratteri, che si incontrano e scontrano nella contraddizione e nell’impossibilità di esprimersi o capirsi, di ridurre totalmente le distanze. Che articolano una lingua complessa ma affascinante proprio perché sincera, radicata nel reale.
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