La possibilità di metterci in comunicazione gli uni con gli altri è stata una delle spinte innovatrici per l’utilizzo e la diffusione del telefono. Che fosse fisso, mobile, all’interno di una cabina o portatile. Il telefono è diventato un mezzo di comunicazione imprescindibile nel corso degli anni, facendosi nella vita moderna indispensabile per svolgere anche le più semplici attività quotidiane. Ma ricordiamo che la sua funzione prima non era affatto quella di mandare messaggi o navigare su internet rendendo ogni cosa a noi distante vicinissima nel giro di un click, ma quellq di ascoltare la voce di un interlocutore che dall’altra parte aspetta la nostra risposta.
Era prevedibile, dunque, che fin dall’inizio dell’uso dei telefoni la natura solamente tecnologica dell’oggetto sarebbe stata modificata e adattata anche a seconda delle esigenze narrative di uno spettro assai ampio di altre finestre, che dalla letteratura ai radiodrammi fino alla natura cinematografica o televisiva lo hanno reso uno strumento di avvertimento e paura per il genere horror. Sfumature che spostano l’utilizzo del telefono da quella che negli anni Duemila e in avanti è diventata sempre più una critica nei confronti della piccola scatola disponibile nelle nostre mani, andata poi inevitabilmente mutando con l’arrivo del web e sostituendola con computer e social network, dispositivi contemporanei ben più attinenti ai giorni nostri.
Ma fu paradigmatico come nel 2006 Stephen King, re del terrore, scrisse il romanzo Cell in cui determinate chiamate finivano per trasformare coloro che le ricevevano in creature non più umane. Sintomo del sentore della spersonalizzazione che l’uso dei cellulari faceva percepire ad una società ancora poco abituata all’uso costante del device, ma indice dello spirito dei tempi ripreso anche nel 2016 con una pellicola omonima. Una visione già incredibilmente contemporanea per un arnese che ha avuto nel corso della sua storia filmica rappresentazioni e significati anche meno simbolici, di cui però se ne è fatto uso soprattutto per alimentare timori già insiti nell’animo delle persone.
Il primo filo del terrore
La paura, infatti, è qualcosa che principalmente discende dalla nostra mancata conoscenza dell’argomento. Il non sapere cosa si ha davanti, il non poter controllare le azioni degli altri, sovrannaturali o meno, e non poter così tenere sotto controllo il nostro destino crea uno sconforto esorbitante all’interno degli individui e dona perciò al telefono l’opportunità di poter fare tesoro del nostro terrore.
Spesso, infatti, è il non sapere chi è dall’altra parte della cornetta a destare la maggior fonte di angoscia. Era il 1948 quando Lucille Fletcher sceneggiava per il grande schermo la sua versione precedentemente radiofonica di Il terrore corre sul filo. Opera con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster che voleva una moglie costretta al letto ascoltare una chiamata in cui venivano dettate le dinamiche di un futuro omicidio e che si scopre esserne infine la vittima.
Un’opera aperta e chiusa su se stessa, su quel telefono che al principio della pellicola viene riportato nella ramificazione dei vari fili interconnessi di un centralino, per concludersi sulla particolarità del telefono della protagonista. Sentire solamente orario, luogo e dettagli del delitto è abbastanza per la donna, per attivare in lei un senso di angoscia che va caricandosi vista anche l’assenza prolungata e inspiegabile del marito non ancora tornato a casa. Semplici parole eppure coordinate per un messaggio di morte che entrano nelle orecchie e nella psiche della protagonista. Una telefonata a cui, forse, non si voleva rispondere, se solo fosse stato possibile scegliere di non farlo.
Scream e gli stilemi del genere horror
Esattamente come le chiamate più terrificanti dell’intera storia del cinema, Scream di Wes Craven è un manifesto della paura che solamente una telefonata può suscitare, già sperimentato nel panorama hollywoodiano se pensiamo a lavori come Merletto di mezzanotte (1960) e Quando chiama uno sconosciuto (1979), ma rimasto assai più incisivo avendo teorizzato all’interno del film proprio gli stilemi dell’horror.
Scream mostra come il doppio spavento suscitato dallo squillare del telefono implichi sia la morte imminente della persona chiamata, che l’attenzione posta dal killer sulla vittima, non solo “distante” perché dall’altra parte del telefono, ma vicina in quanto l’assassino è intento a osservare gli effetti della sua voce sulla preda. Un modus operandi che la saga ripete sempre uguale nel proprio universo orrorifico per subire, ovviamente, un cambio proprio con il requel del 2022, dove alla chiamata è necessario aggiungere la parte messaggistica, assai più attinente con l’uso dei cellulari da parte dei giovani, ma non volendo né potendo rinunciare alla solita telefonata.
Uno squillo, un brivido
Non tutto l’horror, però, è solamente spavento immediato. C’è qualcosa che le chiamate possono suscitare raggelando il sangue di chi sta ascoltando, variando nel mondo del cinema dal genere che ogni volta le ha ospitate. Telefonate come da un’altra realtà, da un passato e un futuro che si incontrano come convergendo all’interno di un’unica linea nel film Strade Perdute di David Lynch, le quali fanno coincidere la suggestione di cui l’autore è maestro e che si insinuano nella composizione ben più complessa e intricata del racconto. Sono frammenti di un perturbante che ancora non conosciamo, ma sentiamo familiare. Sono le nostre paranoie più intime che Lynch fa intercorrere tra Fred e L’Uomo Misterioso.
Chiamate appartenenti a un cosmo lontano, differente, diverso da qualsiasi altro. Anche da quello di una serie AppleTV+ come Shining Girls che fa usare al killer le chiamate per intimidire le sue vittime, mescolando le loro timeline temporali e facendo ascoltare loro frasi o parole che non hanno ancora pronunciato, ma lo faranno di lì a breve. La registrazione come ulteriore fonte di incastro nella società tecnologica di cui subiamo anche il male, pronto a parlare e sfruttare qualsiasi apparecchio.
Il telefono nei diversi generi
C’è poi il telefono e il suo utilizzo thriller. Non solo adoperare la paura per inserirla in un contesto tecnologico, ma impiegare proprio il contesto per accrescere la tensione. C’è l’esempio drammatico di un Locke, che vuole il suo protagonista Tom Hardy costretto ad affrontare se stesso proprio a seguito delle continue chiamate che lo catapultano in quella sua esistenza da cui sembra voler scappare.
C’è un grande terrore contemporaneo, la batteria scarica, quella che controlla costantemente Ryan Reynolds nella pellicola Buried – Sepolto, dove l’unica maniera per uscire da una cassa in cui è incastrato sottoterra è saper telefonare ai numeri giusti, oltre al dover stare attento a non far spegnere il solo strumento di comunicazione per poter interagire con l’esterno. C’è anche uno dei migliori thriller europei che costruisce la tensione attorno ad un filo, il The Guilty di Gustav Möller, un intero caso esposto e risolto nel giro di una notte di telefonate, in cui i brividi arrivano dalla cornetta fino allo spettatore per un caso tutto riservato alle parole e all’immaginazione di chi sta ascoltando.
Rispondere alla chiamata
Ma a volte rispondere è un bene e l’accettare la chiamata è necessario alla sopravvivenza. Non in termini religiosi, benché sovrannaturali come in Black Phone. Nelle telefonate accolte dal giovane protagonista Finney, quelle forse mai realmente ascoltate dal suo sequestratore il Rapace quando anche lui veniva segregato nello scantinato dal padre, viene incanalata l’energia seppur tragica delle vittime rapite prima di lui.
Come se il telefono fosse il catalizzatore di tutto ciò che di brutale e malvagio è avvenuto in quella cantina, racchiuso all’interno di un oggetto affinché producesse il suo contrario, ossia il bene. Un ricettacolo per fronteggiare una sofferenza che deve fermare il suo corso e che potrà liberarsi di quel male aiutando Finney. Il telefono che si fa vera e propria porta per un universo altro. Una finestra come quella in cui noi guardiamo per osservare il cinema e la tv.