Giochiamo a carte scoperte e iniziamo la nostra recensione di West Side Story con la domanda più naturale da porsi: aveva senso realizzare il remake di quello che è forse il più famoso musical cinematografico hollywoodiano? L’opera di successo di Arthur Laurents, Leonard Bernstein e Stephen Sondheim aveva davvero bisogno di una nuova versione su grande schermo dopo l’indimenticabile film del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins? Arrivati ai titoli di coda delle due ore e mezza, la risposta appare chiara e quanto mai banale: sì, se il regista è Steven Spielberg.
Forse si dovrebbe proprio partire da qui, dall’importanza dell’autore dietro la macchina da presa, per giustificare un nuovo adattamento del musical di Broadway. Più che un remake, questo West Side Story è in tutto e per tutto un film di Steven Spielberg. Ne trasuda la poetica presente nella sua filmografia e trova ragion d’essere attraverso lo stile e la mano del regista di Cincinnati ponendosi come ennesimo tassello di un percorso coerente. E che forse, per la prima volta, sembra voler affrontare anche una dimensione più tragica, legata alla morte, dialogando con un cinema hollywoodiano classico che sta scomparendo e che rimane tuttavia presente, stampato nei fotogrammi della pellicola.
West Side Story (2021)
Genere: Musical
Durata: 156 minuti
Uscita: 23 dicembre 2021 (Cinema)
Cast:Ansel Elgort, Rachel Zegler, Ariana DeBose
La trama che conosciamo
La trama del film è quella conosciuta. Siamo a New York negli anni Cinquanta. Due gang rivali composte da gruppi di adolescenti, i Jets – i bianchi americani – e gli Sharks – i portoricani immigrati – si sfidano costantemente giorno dopo giorno per controllare il territorio dell’Upper West Side, una parte della città che sta mutando e si sta rinnovando. Anche una serata di balli è occasione per Riff, leader dei Jets, e Bernardo, leader degli Sharks, per confrontarsi e sfidarsi. Sarà proprio durante quella serata che Tony, ex-galeotto e ex-componente dei Jets ora distante da quelle dinamiche e desideroso di cambiare vita, conosce Maria, giovane portoricana e sorella di Bernardo. Tra i due nascerà subito un amore folle e inesprimibile (se non attraverso canti e balli, come vuole la tradizione del genere musical), ma causerà l’ennesima diatriba tra le due gang ormai pronte a un ultimo scontro che sancirà definitivamente il dominio delle strade del quartiere. La situazione precipiterà donando alla storia di Tony e Maria, novelli Romeo e Giulietta, dei contorni tragici.
Il film di Steven Spielberg non si discosta dalla trama originaria del musical, cambiando all’occorrenza l’ordine delle canzoni (il che potrebbe sorprendere gli affezionati della versione di Wise e Robbins). La novità più importante sta nel personaggio di Valentina, interpretata da Rita Moreno che, dopo essere stata Anita nel film di sessant’anni fa, ritorna all’interno del racconto sostituendo il ruolo del vecchio Doc (qui marito scomparso di lei). Sarà lei a cantare uno dei brani più celebri del musical, scelta che descrive nel migliore dei modi il tema preponderante di questa nuova versione.
I fantasmi del passato
Dimenticate i colori che presentavano l’opera nell’Ouverture del 1961. I titoli di testa di West Side Story sono semplici, brevi, essenziali. Poche parole su fondo nero, nessuna silhouette della città che, invece, viene presentata subito come un quartiere mezzo distrutto. È con le macerie e i mattoni sparsi per terra che il film comincia ed è tra gli edifici semi-distrutti (o semi-costruiti) che la storia si svolge. Allo stesso modo, la fotografia del fidato Janusz Kamiński si mantiene per lungo tempo desaturata, per colorarsi solamente durante i momenti musicali.
È una scelta che corrisponde a due temi che il film vuole affrontare e che giustificano l’operazione. Da un lato, West Side Story si svolge in un quartiere che si sta rinnovando e sta cambiando. L’America degli anni Cinquanta rappresentata nel film, colma di pregiudizi, razziali ma non solo, non sembra poi tanto diversa da quella contemporanea, ma permane una fiducia di cambiamento in atto (ed è qui che il brano Somewhere acquista un senso che trascende dalla dimensione della storia d’amore tra i protagonisti e si fa portavoce di chi lo sta cantando). Sotto questo punto di vista ottimista, West Side Story è molto attento a rimodernizzare l’immaginario che il film del 1961 aveva fissato negli spettatori e a rinnovarsi a sua volta: nessuna blackface, dialoghi in spagnolo non sottotitolati per evitare la supremazia della lingua inglese in un’opera che parla di scontri, il personaggio di Anybodys non più tomboy ma transgender, e persino la presenza della voce vera degli attori nelle sequenze di canto (nella versione del 1961 alcuni attori erano ridoppiati).
Tuttavia, West Side Story è anche un film incredibilmente mortifero e funereo. Non solo per la tragedia in atto che catalizzerà il tono della pellicola nel secondo atto dell’opera, ma per la maniera in cui questo mondo viene raffigurato sullo schermo. Le macerie dell’edificio, la mancanza del colore, la mestizia che ad un certo punto annega i personaggi: Spielberg sembra mettere in scena un mondo che sta via via scomparendo e che si risveglia unicamente durante i momenti musicali, ovvero quelli che più esprimono l’interiorità dei personaggi plasmando la realtà avvicinandola alla fantasia. È in questi momenti che la dedica al padre recentemente scomparso dona al film un velo fantasmatico. In West Side Story Spielberg compie un obiettivo a lungo atteso, un sogno da regista che inseguiva da tempo, quello di girare un musical e donare la propria versione dell’opera. Il risultato non può che essere una riflessione sulla morte, elemento che si accoppia con l’amore e che comunque è presente all’interno della storia, sul tempo passato e quindi sul cinema hollywoodiano che Spielberg ha sia distrutto (negli anni Settanta durante gli anni della New Hollywood) che ristrutturato.
Spesso i personaggi di West Side Story vedono il loro corpo e il loro volto coperto da un velo trasparente, che sia una tenda mossa dal vento o un tessuto colorato. Gli stessi veli che coprono i cadaveri all’obitorio. I personaggi sembrano cercare il modo di proteggersi dalla polvere del tempo e della morte (sia Tony che Maria hanno a che fare con le pulizie) e Spielberg stesso sembra consapevole di star realizzando un film che appartiene a un altro tempo. Allo stesso tempo celebrazione di un passato e speranza per il futuro, West Side Story è un film che vuole rivivere e far rivivere, per allontanare il proprio tramonto e allo stesso tempo accogliere una nuova alba.
Il cast e la regia che danzano
Dove stanno il presente e il futuro di West Side Story firmato Spielberg? Sicuramente nei volti del giovane cast. Se Ansel Elgort è un Tony che riesce a calarsi nel personaggio ma senza spiccare, ci pensa la coppia formata da Mike Faist e David Alvarez, rispettivamente Riff e Bernardo a distinguersi e donare personalità. Rita Moreno si ritaglia un personaggio di pregio, più di un semplice omaggio al precedente film o un breve cameo, ed è capace di donare una profondità rara a un comprimario, autrice di alcuni dei momenti più emozionanti del film. Ma è nella coppia formata da Ariana DeBose (Anita) e Rachel Zegler (Maria) che gli occhi e le orecchie dello spettatore troveranno l’elemento più prezioso del film.
Ariana DeBose aveva forse l’eredità più pesante sulle proprie spalle, interpretando il ruolo che era di Rita Moreno e che le valse un Oscar. L’attrice riesce a spiccare dando vita a un’Anita fiera, contemporanea, forte e umana. Proprio quando il film sembra sfilacciarsi, una volta raggiunto il climax, è proprio il suo personaggio a diventare la bussola per lo spettatore, tenendolo incollato allo schermo. Rachel Zegler è talento puro. Impossibile non innamorarsi della sua Maria al pari di Tony, una giovane diciottenne con gli occhi pieni di vita e dal carattere deciso, con una voce che non temiamo a definire magica.
Infine, c’è l’ultima star del film, la conditio sine qua non dell’esistenza di questo West Side Story: Steven Spielberg, che si diverte ancora come un bambino con la macchina da presa e riesce a meravigliare con una serie di idee visive eccezionali. Il modo in cui muove la macchina da presa, valorizzando le coreografie di Justin Peck, non è solo quello di un Maestro della settima arte, ma anche quello di un giovane che sta realizzando il proprio sogno. E forse, questo West Side Story, a cavallo tra vita e morte, tra classicità e contemporaneità, tra amore e desiderio, tra realtà e fantasia, è proprio questo: il cinema che travalica il tempo, un sogno ad occhi aperti da cui non vorremmo svegliarci mai.
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Conclusioni
Non chiamatelo remake. Il West Side Story di Steven Spielberg è un film che appartiene al suo autore e alla sua poetica, dimostrando ancora una volta il talento del cineasta. Tradizione e rinnovamente si confrontano in un dialogo che sembra riflettere anche sul tempo che passa e sulla forza del cinema. Ariana DeBose e Rachel Zegler sono i talenti eccezionali di un cast che sorprende e convince.
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Voto ScreenWorld