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    Home » Cinema » Ultime recensioni cinema » Sundown, la recensione: ambizioni esistenziali per risultati modesti

    Sundown, la recensione: ambizioni esistenziali per risultati modesti

    La recensione di Sundown, il nuovo film di Michel Franco con protagonista un enigmatico Tim Roth perso nella realtà di Acapulco.
    Claudio GarganoDi Claudio Gargano15 Aprile 20225 min lettura
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    tim roth in sundown
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    Perché un uomo fa quello che fa? Questo sembra essere l’interrogativo che ci pone il nuovo film di Michel Franco, presentato in concorso l’anno scorso alla 78° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, appena uscito nelle sale italiane, e ce lo porremo anche noi in questa nostra recensione di Sundown. Se col precedente Nuevo Orden, Franco ci aveva colpito per l’improvviso deflagrare della violenza e per la messa a nudo delle contraddizioni della classe borghese, anche qui non è da meno.

    Quel che si può dire della trama, senza svelare troppo, è questo: Neil Bennett, interpretato da un enigmatico Tim Roth, si trova in vacanza ad Acapulco con la sorella Alice (interpretata da Charlotte Gainsburg) e i nipoti. L’improvvisa notizia della morte della madre fa correre tutti all’aeroporto ma, all’ultimo momento, Neil dice di aver dimenticato il passaporto in albergo e rimane lì, assicurando la sorella che prenderà il prossimo aereo. Cosa che mancherà volutamente di fare, andando anzi a pernottare in un hotel di un quartiere malfamato e mescolandosi placidamente all’ambiente pericoloso, per gli stranieri, della vera Acapulco, lontana anni luce dall’artificioso Eden dorato offerto del resort in cui alloggiava con Alice. Nel nuovo quartiere Neil inizia una storia d’amore con la bella e giovane Berenice, almeno finché la sorella non tornerà per chiedergli conto del suo comportamento. A causa della condotta di Neil ci saranno molte conseguenze che qui non diremo.

    Sundown

    Genere: Drammatico
    Durata: 83 minuti
    Uscita: 14 aprile 2022 (Cinema)

    Regia: Michel Franco
    Cast: Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios

    Paradisi dorati e realtà estreme

    Colpisce come un pugno la differenza tra l’ambiente ovattato del resort in cui alloggiano i Bennett, dove vengono serviti e riveriti, e l’ambiente in cui si cala volutamente Neil dopo la partenza di Alice e dei nipoti. Tassisti infidi, hotel sporchi in cui non puoi fidarti a lasciare nulla di valore in camera, soldati armati che girano per le strade, delinquenza dilagante, gente che viene ammazzata sulle spiagge come se nulla fosse. Il paradiso in cui soggiornano i turisti come i Bennett sembra dunque un’oasi felice in mezzo alla miseria e alla criminalità, avamposto di supposta civiltà tra il dilagare di un male sociale spietato e ferale. Solo l’indifferenza e un certo paternalismo progressista permettono di godersi una vacanza in questi luoghi, in cui si vive un ambiente totalmente artefatto e avulso dall’inferno che esiste fuori. Chi ci ha soggiornato può raccontare di essere stati ad Acapulco ma in realtà non è così, perché ha semplicemente abitato uno di quei non-luoghi, tipici della nostra civiltà, di cui parlava l’antropologo Marc Augé nel suo seminale volume Rovine e macerie. È chiaro che Franco vuol far esplodere tale contraddizione e lo farà nel modo più inaspettato e violento. Non diremo come, ovviamente.

    Laconicità

    Ciò che rimarrà impresso allo spettatore, fin quasi ad irritarlo, saranno la laconicità e l’assoluta imperturbabilità di Neil di fronte agli eventi che gli succedono intorno. E in questo Tim Roth è bravissimo a rendere l’enigmaticità di un personaggio che, per certi versi, riecheggia il taciturno Novecento de La leggenda del pianista sull’oceano. Anche qui Roth parla molto poco. Anzi sembra, da quanto dichiarato nelle interviste, che sia stato proprio lui a suggerire a Franco di ridurre al minimo i suoi dialoghi, proprio per aumentare il mistero attorno al personaggio.

    Lo straniero

    L’imperturbabilità e l’enigmaticità di Neil Bennet richiamano quelle di Arthur Meursault, protagonista del romanzo Lo straniero di Albert Camus, da cui Luchino Visconti trasse un film con Marcello Mastroianni nel 1967. Anche Meursault, anonimo impiegato francese che vive ad Algeri, come Neil rimane impassibile alla notizia della morte della madre e, tra l’altro, si lascia coinvolgere in un’amicizia con un criminale, analogamente a Neil che si invischia nel tessuto delinquenziale di Acapulco. Dopo aver ucciso un arabo senza motivo, Meursault si lascia processare e condannare come se nulla fosse. Il capolavoro esistenzialista di Camus denunciava l’assurdità e la mancanza di una bussola morale di riferimento del vivere moderno: Sundown, con l’impassibilità di Neil, sembra voler andare anch’esso in questa direzione. La fotografia del film (realizzata da Yves Cape), solare e abbacinante, che stride volutamente con la drammaticità degli eventi, richiama tra l’altro le atmosfere calde ed esotiche della pellicola che Visconti trasse dal libro di Camus. Tutti questi elementi fanno dunque pensare a delle ambizioni piuttosto alte.

    Ambizioni alte per un tonfo potente

    Peccato però che quando il mistero venga svelato, il castello di carte creato da Franco con le contraddizioni sociali fatte esplodere, i riferimenti alti, la fotografia accesissima che sembra ipnotizzare, o imbambolare l’attore principale, crolli miseramente. La spiegazione dell’irritante comportamento di Neil è davvero banale e per nulla spiazzante, come sembra vorrebbe invece essere tutto il film. Se dunque l’attenzione rimane alta per la breve durata della pellicola, appunto perché ci si perde alla spasmodica ricerca dei motivi del comportamento di Neil, poi il brusco finale lascia interdetti e delusi per la banalità del suo scioglimento. Le alte ambizioni di Franco si perdono dunque in un vacuo girovagare di Neil/Tim Roth che, nelle intenzioni dell’autore vorrebbe evidentemente essere misterioso e al tempo stesso rappresentare l’indolenza e l’indifferenza dell’alta borghesia nei confronti di realtà estreme alle quali, per quanto ci si immerga, resterà sempre estraneo. Ma i motivi nascosti dietro l’irritante condotta di Neil, per quanto comprensibili, riducono il film ad uno sterile esercizio autoriale.

    Conclusioni

    2.0 Irritante

    Uno sterile esercizio autoriale dalle grosse ambizioni, che si ispira a riferimenti molto alti per cadere in un irritante e vacuo peregrinare del laconico protagonista nell'inferno della Acapulco più malfamata. Tim Roth riecheggia l'enigmaticità del suo Novecento, ma di quella rimane solo una debole eco.

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