Una fogna a cielo aperto. Puzzolente, melmosa, contagiosa. È una Roma putrida, svuotata della sua antica bellezza. Poche panoramiche, pochi campi lunghi, poco respiro nelle inquadrature. Non c’è spazio per monumenti, strade e palazzi. Qui stiamo parlando solo e soltanto di persone. E in questa Roma le persone fanno schifo, stanno male, covano rancore. Il meteo prevede sempre pioggia, ma nulla può lavare via lo sporco nell’animo di questa gente balorda. Apriamo la nostra recensione di Piove, opera seconda (la prima in solitaria) di Paolo Strippoli, calandovi subito nella torbida atmosfera di un horror familiare che scava negli anfratti più scomodi del trauma. Quello che ristagna, non prende aria ma cerca sempre di venire a galla con prepotenza. Per questo guardare Piove significa uscire dalla sala sentendosi sporchi. E no, non ci sarà ombrello che tenga.
Piove
Genere: Horror, drammatico
Durata: 93 minuti
Uscita: 10 novembre 2022 (Cinema)
Cast: Francesco Ghighi, Fabrizio Rongione, Cristiana Dell’Anna
Un orrore grande quanto una casa
C’è qualcosa che non va nelle fogne di Roma. Una strana sostanza emerge dai tombini, alterando menti con le sue spietate esalazioni. Come all’interno di un classico racconto di Stephen King (vi dice niente The Mist?), lo straniante elemento paranormale è solo un pretesto per raccontare altro. Lo straordinario è il chiavistello per scardinare l’ordinario. Infatti Piove non allarga mai davvero il suo sguardo verso la città, raccontata a sprazzi solo attraverso le voci dei telegiornali, focalizzandosi su un nido familiare. Un nido freddo e impregnato di rancore. Una casa svuotata d’amore abitata da papà Thomas (uomo ormai spento), suo figlio Enrico (assai problematico) e Barbara (costretta su una sedia a rotelle). Sono loro il nucleo del film. Tre persone costrette a convivere tra loro e con un macigno personale pesantissimo. Perché a volte il dolore unisce. Altre divide, creando un effetto domino di cose non dette che si trasformano in odio puro.
“Focolaio” domestico
C’era davvero bisogno di un virus per odiarci a vicenda? È una domanda martellante, che fa rumore sullo schermo come pioggia battente. Una domanda figlia della pandemia e degli ultimi due anni in cui un virus ha esasperato i rapporti sociali e familiari. Chissà quanto di tutto questo era già presente nella sceneggiatura di Piove, premiata nel 2017 con il Premio Solinas (grazie al lavoro di Jacopo Del Giudice, nel film affiancato da Gustavo Hérnandez e dal regista Paolo Strippoli), e quanto è stato rimaneggiato dopo. Il parallelismo, volontario o meno, è lampante. Così Piove si incunea spietato nelle piaghe familiari. Lo fa con coraggio e cinismo, mettendo in scena un incolmabile vuoto d’amore che genera mostri. Un’opera morbosa, che dà vita un malsano horror sentimentale che evidentemente ha spaventato parecchio, considerando il (secondo noi eccessivo) divieto ai minori di 18 anni che lo accompagna.
Un gran peccato, perché Piove dà il meglio di sé proprio nel dare voce alla rabbia giovanile. Alla noia, al sentirsi inadeguati e al rifiuto delle regole imposte da una società soffocante. Una dimensione che Strippoli abbraccia con molta sincerità, laddove invece il mondo adulto appare più rigido, impostato e artefatto (anche nella recitazione non sempre convincente). Nasce così un horror atipico per il panorama italiano. Non solo per una messa in scena dal sapore internazionale (nella fotografia e nell’impostazione scenografica), ma soprattutto per la sfrontatezza dei temi, sia per l’audacia di toccare il nervo scoperto di una dimensione sacra come quella del focolare domestico.
Piangere fango
Tre atti per tre (non) elaborazioni del lutto. Piove è prima di tutto un film-stato d’animo dominato dall’angoscia. Lo smarrimento di chi non ha punti di riferimento, la paura di chi si sente in colpa. Una dimensione ondivaga che si riflette anche sull’incedere del film stesso, che procede a fiammate (nonostante tutta quell’acqua). A volte si ha la percezione di una storia sfilacciata (come i personaggi), ma per fortuna il finale rimette insieme i pezzi. Il tutto impreziosito da una costruzione metaforica molto suggestiva (ma tratti ridondante), che utilizza oggetti, corpi e luoghi in modo molto allegorico. Ecco, Piove è un film che non dà pacche sulle spalle. Non è indulgente col pubblico, ma si affida allo sguardo di chi guarda per essere compreso. Un film che si fida poco dei legami familiari, ma ha fede nella pazienza di chi andrà al cinema per immergersi in un horror ambizioso, con qualche ingenuità (soprattutto nel montaggio), ma capace di rimanere impresso. Come qualcosa che rimane indigesto sullo stomaco. Come quando ti ricordi che la vita può cambiare anche con un palloncino che scoppia.
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La recensione in breve
Scomodo, cinico e impregnato di rancore. Nonostante qualche ingenuità nel montaggio e una recitazione a tratti troppo artefatta, Piove è un horror familiare convincente e originale (nel panorama italiano). Un film figlio della pandemia, capace di scavare in posti scomodi interrogando lo spettatore sulla propria sfera affettiva.
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Voto ScreenWorld