In questa nostra recensione di Occhiali neri, ultima fatica cinematografica di Dario Argento, appena presentato fuori concorso alla Berlinale 2022, a dieci anni di distanza da Dracula 3D, in cui il Maestro del brivido torna alle atmosfere che gli sono più congeniali, non ci sentiamo di applicare gli usuali parametri con cui, attualmente, si valuta la tenuta narrativa di un’opera filmica, perché in questo caso il film ne verrebbe ingiustamente penalizzato, nonostante la presenza dello storico sceneggiatore Franco Ferrini, già collaboratore di Argento in numerosi film tra cui i bellissimi Opera (1987) e Phenomena (1985), nonché di Leone per C’era una volta in America. Argento lo si accetta oppure lo si rigetta, non ci sono vie di mezzo. Il suo cinema prende le mosse dai moti interiori dell’inconscio personale del cineasta romano che, nei casi più felici, hanno riverberato le pulsioni presenti negli incubi collettivi di un’intera società.
Argento ha sempre pescato nelle paure più ancestrali dell’animo umano e le ha sbattute in faccia agli spettatori con un linguaggio personale, spericolato e creativo, portando la cinematografia italiana di genere ai massimi livelli internazionali. Il nucleo estetico e poetico del regista di Profondo rosso vibra ancora forte in Occhiali neri, anche se va disseppellito dietro un’apparente sciattezza nella scrittura. Ribadiamo però che il punto forte di Argento non è mai stata una sceneggiatura blindata e, in questo caso, conta anche il recupero di un’atmosfera da onesto slasher anni ’80, in cui i trucchi prostetici e i fiotti di sangue la facevano da padrone, e il politically correct era una parola ancora sconosciuta.
Occhiali Neri
Genere: Thriller
Durata: 90 minuti
Uscita: 24 febbraio 2022 (Cinema)
Cast: Ilenia Pastorelli, Asia Argento, Xinyu Zhang
La trama
La escort Diana, interpretata dalla lanciatissima Ilenia Pastorelli (ormai musa del cinema di genere italiano), di ritorno da lavoro, si imbatte in un serial killer, fissato con le prostitute (ne ha già uccise tre), che la insegue a bordo di un furgoncino e la sperona, facendola uscire fuori strada. L’incidente danneggia purtroppo la corteccia cerebrale di Diana, provocandole una cecità permanente e gettandola nella disperazione più nera. A confortarla ci sarà Rita (interpretata da una Asia Argento truccata, vestita e pettinata come i personaggi della madre Daria Nicolodi nei vecchi film del padre), un’esperta in riabilitazione di persone non vedenti e, soprattutto, Chin, un bambino cinese rimasto senza famiglia, distrutta nello stesso incidente in cui Diana ha perso la vista. Il killer però non demorde e si mette sulle tracce dell’unica vittima sfuggita alla sua furia omicida.
L’eclisse
L’incipit di Occhiali neri ha un sapore talmente onirico che ci si chiede se siamo ancora nella realtà oppure nel reame dei sogni, oppure ancora in un territorio ibrido, in cui la messa in scena riflette lo stato d’animo della protagonista, Diana, accecata dalla luce del sole che viene oscurato dalla Luna durante un’eclisse. Una volta questo procedimento stilistico, teorizzato da Pasolini, si sarebbe chiamato soggettiva libera indiretta. Il sonoro d’ambiente è attutito, quasi assente, mentre domina una nota elettronica pulsante tirata a lungo. Le strade moderne del quartiere romano dell’Eur scorrono tramite trucchi caleidoscopici tipicamente datati, mentre Diana osserva le persone con lo sguardo all’insù, intente a cogliere l’affascinante fenomeno astronomico. L’atmosfera è assolutamente straniante e non è azzardato dire che, nell’incessante reiterare di dettagli urbani, accompagnati da un sonoro destabilizzante, il pensiero vola alla sequenza finale dell’Eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, anch’essa ambientata all’Eur, in cui lo spazio urbano, vuoto, veniva frammentato in una serie di inquadrature che restituivano il non-senso alienante della civiltà moderna.
Mentre nel capolavoro antonioniano l’eclisse era tutta interna all’animo dei due protagonisti (Alain Delon e la recentemente scomparsa Monica Vitti) destinati a non incontrarsi più, nel film di Argento il fenomeno è reale e diventa oscuro presagio di eventi terribili. Non a caso, il disturbo alla vista di cui Diana già comincia a soffrire in questa scena, sarà anch’esso il prodromo della tragedia che la colpirà. In ogni caso ci piace pensare che questo riferimento all’Eclisse sia stata voluta e consapevole da parte di Argento.
Un viaggio negli anni ’80
Occhiali neri prosegue per accelerate e frenate in tutta la prima parte, condita da alcuni omicidi in cui Argento sfodera tutta la sua maestria nel metterli in scena, con tanto di dettagli efferati che faranno contenti i fan dello splatter più genuino, ovvero quello realizzato con trucchi prostetici dal vero, in questo caso ad opera dalla società del mitico Sergio Stivaletti, e litri di sangue finto. Le evocative musiche del francese Arnaud Rebotini, oltre a richiamare il ritmo sostenuto dei Goblin (storica band responsabile delle colonne sonore dei capolavori più famosi del cineasta romano), echeggiano felicemente soprattutto le sonorità carpenteriane dei film del regista americano, soprattutto Christine e de Il Signore del male.
Il tutto concorre al concretizzarsi di un’atmosfera da film slasher anni ’80, a metà tra la forsennata iconoclastia del genere americano che in quel decennio seppe esprimere più di altri le inquietudini della società occidentale, e la sensibilità tutta italiana, nonché personale, di Argento che ha sempre saputo comporre arazzi onirici di spietata bellezza, che anche qui non mancano.
Il recupero della fiaba horror
La seconda parte del film sprofonda i due protagonisti, Diana e Chin, nelle tipiche atmosfere da fiaba nera, egregiamente frequentata da Argento ai tempi di Suspiria (1977) e Phenomena (1985). Qui le redini della credibilità vengono lasciate andare a favore di un andamento rapsodico e onirico, durante il quale i personaggi devono affrontare l’oscurità di una foresta, luogo archetipico per eccellenza, in cui si perde l’orientamento e anche la propria identità. Da questo tuffo nell’oscurità o si rinasce diversi, rinnovati, oppure non se ne esce più. La Natura, con le sue creature, non è indifferente all’attraversamento dei personaggi sul lato oscuro della Luna o, se vogliamo, nel periglioso viaggio per le acque nere dell’inconscio. Di essa facciamo esperienza sia del lato benevolo, che di quello terrificante.
Il viaggio notturno di una ragazza e di un bambino nel cuore di una Natura oscura e affascinante al tempo stesso, fiabesca soprattutto, richiama alla memoria un altro indimenticabile viaggio notturno, quello dei due bambini protagonisti de La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, 1955), capolavoro noir di Charles Laughton in cui l’orco di turno aveva le fattezze seducenti di Robert Mitchum, travestito da predicatore. In Occhiali neri l’orco non ha il carisma di un grande attore, ma diventa una pura funzione narrativa, assetato del sangue di Diana, né la rivelazione della sua identità costituisce il cardine del film. Tale funzione viene evidenziata da un momento assolutamente astratto, in cui intravediamo l’assassino illuminato di rosso in un ambiente che non è neanche più la foresta, ma bensì uno spazio tutto interiore nel quale la narrazione si inabissa all’improvviso, per far perdere totalmente l’orientamento allo spettatore. La sospensione viene sottolineata anche da una tendina rotonda, fiabesca, che dal nero ci riporta alla location boscosa.
Lo sguardo negato
La cecità di Diana si riallaccia ad un topos già felicemente frequentato da Argento in Il gatto a nove code (1971) e Suspiria (indimenticabile la morte del non vedente Flavio Bucci sbranato dal suo stesso cane). Il momento della cecità è introdotto efficacemente da Argento, con una soggettiva tutta interiore di Diana, in cui lo spettatore sprofonda con lei in un buio insistito e opprimente. Da lì in poi sarà tutto un cercare lo sguardo più adatto, da parte di Argento e dello spettatore, per appigliarsi a qualcosa, a un punto di riferimento per non cadere, proprio come fa la stessa Diana per adattarsi alla sua nuova condizione. Guardare è conoscere: nel momento in cui la vista è negata, il mondo attorno diventa oscuro come una perenne foresta. Il momento astratto di cui si diceva prima, in cui si esce dalla narrazione, rappresenta dunque la prova attraverso cui l’iniziato viene volutamente disorientato per mettere alla prova la tenuta della sua anima e la centratura del suo io interiore.
Occhiali per vedere
Come si diceva all’inizio, se vogliamo giudicare Occhiali neri con i parametri moderni, il film perde in partenza, a causa della debolezza di alcuni passaggi narrativi e di scelte troppo ingenue da parte dei personaggi. La credibilità viene dunque minata da una scrittura non precisa, che lascia navigare lo spettatore in balia di acque incerte. Tali debolezze possono però essere lette in senso opposto, ovvero come segni di un’opera volutamente e orgogliosamente inattuale, espressione di un tempo e di un modo di fare cinema certamente più libero e meno ossequioso dei dettami attuali riguardo ciò che è rappresentabile o meno, e sul modo di metterlo in scena. Rimane un gustoso e onesto slasher d’altri tempi, caratterizzato dai collaudati stilemi argentiani: prendere o lasciare.
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Conclusioni
Uno slasher d'altri tempi, calato in un'atmosfera da fiaba horror, decisamente congeniale allo stile e alla poetica di Dario Argento. Si astengano però i pedanti gendarmi della sceneggiatura a tenuta stagna, alla costante ricerca di svolte imprevedibili della trama.