Quando si parla di David Bowie, quello fra suono e immagine sembra un connubio obbligato: sia per il potere evocativo delle sue canzoni, spesso assimilabili a vere e proprie forme narrative, sia in virtù dell’inossidabile forza iconografica della rockstar londinese, che forse più di qualunque altra ha saputo integrare la dimensione visiva all’interno della propria musica. E su un connubio analogo è imperniato, non a caso, il documentario scritto, diretto e montato da Brett Morgen, al centro della nostra recensione di Moonage Daydream: un monumentale ritratto per il quale il regista americano ha avuto accesso a una quantità sterminata di materiale d’archivio e filmati inediti, condensata in quasi centoquaranta minuti che ripercorrono la carriera dell’autore di Space Oddity, Life on Mars? e Heroes.
Moonage Daydream
Genere: Documentario, musicale
Durata: 140 minuti
Uscita: dal 15 al 21 settembre (IMAX) e dal 26 al 28 settembre (Cinema)
Una trama che si fonde nel mito di Bowie
Ma nonostante una sostanziale linearità cronologica e la prevedibile attenzione per le fasi principali dell’itinerario artistico di David Bowie (Ziggy Stardust, la trilogia berlinese, la consacrazione divistica di Let’s Dance), l’approccio di Moonage Daydream è assai meno scontato rispetto alle convenzioni del documentario biografico. Brett Morgen, che all’Olimpo del rock aveva già dedicato due dei suoi precedenti lavori (nel 2012 Crossfire Hurricane, sui Rolling Stones, e nel 2015 Kurt Cobain: Montage of Heck), non si limita a raccontare la ‘storia’ di Bowie: la sensazione, piuttosto, è che il film punti a immergere lo spettatore nell’universo del protagonista, riducendo quanto più possibile la nostra distanza dal Thin White Duke pur senza dissipare quella sua allure fatta di provocazione e di mistero.
Aperto dall’incedere elettronico di Hallo Spaceboy, terzo capitolo della saga spaziale di Major Tom, nella versione remixata nel 1996 dai Pet Shop Boys, Moonage Daydream adotta una struttura drammaturgica solo apparentemente tradizionale per poi innestarvi connessioni inaspettate, flussi di coscienza e frammenti dell’immaginario del ventesimo secolo, legati in un modo o nell’altro alla parabola bowiana: da Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau a Metropolis di Fritz Lang, da Scorpio Rising di Kenneth Anger a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. L’allontanamento dalle convenzioni del filone di appartenenza, quanto mai opportuno laddove si parla della più anticonvenzionale delle rockstar, è rimarcato dalla rinuncia a interviste e voci narranti, al di fuori di quelle di David Bowie stesso: sono le sue parole ad accompagnarci in un viaggio che, dall’alba degli anni Settanta, ci illustra la costruzione e l’evoluzione del mito di Bowie attraverso i decenni.
Un’odissea nello spazio e nel tempo nell’opera di Brett Morgen
Mentre dunque sullo schermo assistiamo alle storiche esibizioni sulle melodie di pezzi quali All the Young Dudes, Oh! You Pretty Things e Moonage Daydream, un giovanissimo David Bowie risponde con serafica consapevolezza (e pennellate di ironia) alle domande di un perplesso giornalista della TV britannica, mentre la telecamera si stringe su un primo piano della maschera del suo alter ego Ziggy Stardust. Più tardi, passando per L’uomo che cadde sulla Terra, il sodalizio con Brian Eno e le sperimentazioni della seconda metà dei Seventies, osserviamo Bowie semi-nascosto in un impermeabile, come l’eroe di un film noir, mentre si aggira fra i corridoi degli aeroporti e le strade dei paesi dell’Estremo Oriente: un netto contrasto con la febbrile esplosione di popolarità dell’epoca di Let’s Dance, che tuttavia segna anche una sorta di punto d’arrivo per l’opera di Brett Morgen (i tre decenni a venire, non altrettanto significativi, sono sintetizzati nell’arco di pochi minuti e di una manciata di note).
Un ritratto affascinante
Ad emergere pertanto è un affresco composito, ma al tempo stesso assolutamente coerente e – neanche a dirlo – straordinariamente affascinante di un personaggio che con la sua musica, e prima ancora con la sua concezione dell’arte, è stato in grado di rivoluzionare il panorama culturale di almeno un paio di generazioni. E il modo più adatto a rendere omaggio a tale rivoluzione è quello di assorbirne e riprodurne lo stile vulcanico e massimalista, assieme allo sfrenato senso di libertà: un po’ sulla scia, spostandoci al campo della (semi-)fiction, del Velvet Goldmine di Todd Haynes, ad oggi il miglior film su Bowie mai realizzato. Una ‘lezione’ che Morgen dimostra di aver appreso e messo in pratica con innegabile intelligenza, ma soprattutto con una passione sincera e contagiosa.
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Conclusioni
Nell’arco di oltre due ore di durata, tra performance sul palco, spezzoni di film e interviste e frammenti che fanno parte dell’iconografia del secolo scorso, Moonage Daydream restituisce l’unicità e la magia legate da sempre alla figura di David Bowie, offrendoci al contempo uno sguardo all’identità dietro le maschere: un’identità in perenne cambiamento, che a quelle maschere ha aderito con un’intensità e una convinzione tali da rendercele quanto mai prossime e reali.
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Voto ScreenWorld