È da una ventina d’anni che Alex Garland, regista di Men (suo terzo lungometraggio presentato come evento speciale alla Quinzaine a Cannes e successivamente tra i film di mezzanotte a Karlovy Vary), fa parte del panorama angloamericano di genere in modo importante. Per Danny Boyle ha firmato i copioni di 28 giorni dopo e Sunshine, e a lui dobbiamo anche la sceneggiatura di Dredd (di cui, stando ai diretti interessati, sarebbe anche stato il regista ufficioso). Poi è arrivato l’esordio dietro la macchina da presa con Ex Machina, seguito dall’adattamento letterario Annientamento. Tutte opere che si muovono tra la fantascienza e l’horror, come fa anche la sua terza fatica registica, che come vedremo in questa recensione di Men si tratta di un racconto allegorico che mette in immagini il concetto di mascolinità tossica in modo disturbante e interessante.
Men
Genere: Horror
Durata: 100 minuti
Uscita: 25 agosto 2022 (Cinema)
Cast: Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essiedu
La trama: prendersi una pausa
La protagonista di Men è Harper Marlowe (Jessie Buckley), che ha bisogno di un cambio d’aria dopo un evento traumatico: il marito James (Paapa Essiedu) si è apparentemente suicidato davanti a lei dopo una lite. La giovane lascia quindi la città per prendersi qualche giorno per sé in campagna, nel villaggio di Cotson. All’inizio tutto sembra andare a gonfie vele, con Harper che si fa dare le istruzioni per la casa che ha affittato dal proprietario Geoffrey (Rory Kinnear) e ha l’aria di aver trovato la pace di cui aveva bisogno dopo gli eventi recenti. Ma l’apparenza può ingannare: lei percepisce una misteriosa presenza mentre fa una passeggiata, e un bislacco uomo nudo si aggira per i boschi. E poi, mentre cerca di capire che cosa stia succedendo, scopre che tutti gli uomini della zona sono fisicamente quasi identici, e nella maggior parte dei casi non sono affatto gentili come Geoffrey, anzi: tra commenti inopportuni e minacce, la fanno sentire decisamente poco benvenuta nell’area…
Cinema “malato”
Presentando il film in varie occasioni (incluso un videomessaggio che ha preceduto la proiezione cannense), Alex Garland ne ha parlato come del prodotto ideale da girare in periodo pandemico, per il numero limitato di location – quasi tutto si svolge all’interno della casa – e il cast ridotto al minimo indispensabile. E così è, anche perché l’horror, a seconda del soggetto, è il genere perfetto da alimentare in circostanze particolari come la crisi sanitaria, dato che un racconto minimalista non tradisce per forza le cause esterne che hanno portato a quell’approccio (basti pensare a Saw, anch’esso sostanzialmente con due attori in una stanza ma per motivi di budget). E in questo caso specifico la vera malattia è un’altra, sempre in forma pandemica e con la stessa “invisibilità” del Covid, ma con implicazioni ancora più letali il più delle volte.
Siamo vicini a territori come quello del remake di Black Christmas, dove la mascolinità tossica era letteralmente una tossina, una sostanza che infettava i maschi nel campus universitario e li spingeva a uccidere le coetanee. Qui, invece, il morbo ha avvolto l’intero villaggio, mettendone in evidenza l’anima nera tramite mille sfaccettature, tutte con lo stesso volto (con l’eccezione di Essiedu, il cast maschile è ridotto al solo Kinnear). Una metafora tutt’altro che sottile – il lato peggiore del comportamento degli uomini assume varie forme – ma brutalmente efficace, tra la fotografia di Rob Hardy che trasforma anche un banale cespuglio in puro folk horror e scelte estetiche di Garland che fanno sì che anche la parte finale, quella più raffazzonata perché deve portare a casa il chiarimento del sottotesto, rimanga impressa per le sue declinazioni della componente più fisica dell’orrore, tra Cronenberg e Brian Yuzna.
Uno, nessuno e centomila
E se in tutto questo nessuno si sorprende al cospetto del talento di Jessie Buckley, giovane irlandese che da alcuni anni impreziosisce grande e piccolo schermo (con tanto di nomination all’Oscar per la sua performance ne La figlia oscura), d’altro canto c’è Rory Kinnear che è quasi una rivelazione dopo anni di onorata carriera da comprimario che non dà particolarmente nell’occhio (pensiamo a Bill Tanner in quattro dei cinque film di James Bond con Daniel Craig), con rare apparizioni da protagonista in modalità stoica (vedi il primo episodio di Black Mirror, dove lui è il politico costretto ad accoppiarsi con un maiale). Qui mette in evidenza tutta la sua malleabilità come interprete, con un miscuglio multiplo di fascino, gentilezza, crudeltà, narcisismo e altro suddiviso nei vari corpi a cui gli viene chiesto di dare vita in modo elementare e al contempo profondo. Perché i suoi saranno anche degli archetipi, ma sono fin troppo reali e rendono ancora più inquietante la rozza ma potente carica metaforica dell’opera di Garland.
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La recensione in breve
Con Men Alex Garland firma un pezzo di cinema horror che non va affatto per il sottile, lasciandoci con ricordi inquietanti di immagini che danno a un problema reale connotazioni estetiche da lungo incubo. Ottime le interpretazioni dei due protagonisti: Jessie Buckley e Rory Kinnear.
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Voto ScreenWorld