Lynch/Oz, presentato in anteprima europea a Karlovy Vary dopo il debutto al Tribeca Film Festival, ci riporta nel mondo del regista Alexandre O. Philippe, svizzero di nascita ma da anni residente negli Stati Uniti. Un regista il cui sguardo varia da film a film, poiché ogni suo documentario sul cinema adotta un punto di vista diverso: per parlare di Psycho, in 78/52, si è concentrato unicamente sulla scena della doccia, mentre in Memory: The Origins of Alien, sulla genesi del fantahorror di Ridley Scott, affronta la questione delle varie mitologie che hanno nutrito la creazione dello xenomorfo. Andando ancora più a ritroso, rimane emblematico il caso di The People vs. George Lucas, che parla della galassia lontana lontana sottolineando quanto il fandom sia stato tossico nei confronti del suo creatore, spingendolo a vendere la Lucasfilm e ritirarsi completamente dal mondo dello spettacolo.
In questa sede, con la recensione di Lynch/Oz, l’argomento è David Lynch, e più precisamente la sua dichiarata passione per Il mago di Oz di Victor Fleming, la cui influenza è palese in tutta la sua filmografia, in particolare in Cuore selvaggio (che difatti è stato proiettato, insieme al film di Fleming, nella sezione Out of the Past di Karlovy Vary, per accompagnare il lavoro di Philippe). Un tentativo interessante di decodificare l’approccio al cinema di un regista che notoriamente rifiuta di spiegare le proprie opere, al punto da essere uno dei rari cineasti che non ha mai registrato un commento audio per le edizioni DVD.
Lynch/Oz
Genere: Documentario
Durata: 108 minuti
Uscita: n.d.
Cast: Rodney Ascher, John Waters, Justin Benson
Sei chiavi di lettura
Come ha spiegato Philippe introducendo il film, la lavorazione – avvenuta durante la pandemia – si è svolta così: inizialmente ha conversato al telefono con gli intervistati, registrando con lo smartphone le loro opinioni sul cinema di Lynch e il suo legame con Il mago di Oz. Successivamente ha rielaborato le risposte sotto forma di sceneggiatura e, dopo le eventuali revisioni da parte dei diretti interessati, ha fatto registrare nuovamente l’audio, con attrezzature professionali. A parlare dell’argomento, ciascuno con il proprio capitolo tematico, sono la critica Amy Nicholson e i seguenti cineasti: Rodney Ascher, John Waters, Karyn Kusama, il duo Justin Benson-Aaron Moorhead e David Lowery. Nicholson contestualizza il film di Fleming in termini storici (un flop al botteghino, è diventato uno dei titoli definitivi della cultura popolare americana tramite la televisione alla fine degli anni Cinquanta, ed è il lungometraggio statunitense più visto di sempre sul piccolo schermo), mentre gli altri parlano a ruota libera del loro legame interpretativo con la questione.
L’uomo dietro la tenda
C’è chi si fa più analitico (Ascher, regista di Room 237, è abituato a teorie bislacche), chi più spiritoso (Waters, da sempre un raconteur con la battuta pronta, spiega come i suoi film e quelli di Lynch siano due facce della stessa medaglia, accomunate da una passione viscerale per il film di Fleming, che entrambi hanno – presumibilmente – potuto vedere in sala prima che debuttasse in TV, per ragioni anagrafiche). Il messaggio di fondo, però, rimane lo stesso: senza Il mago di Oz non esisterebbe il cinema di David Lynch, o almeno non esisterebbe nella forma che conosciamo, con alcuni elementi come la presenza ricorrente di Judy Garland, in maniera diretta – i nomi di alcuni personaggi – e non (il percorso del personaggio di Naomi Watts in Mulholland Drive). C’è chi, come Lowery, ci mette del personale (suggestioni lynchiane oppure oziane sono presenti in A Ghost Story o Il drago invisibile, per esplicita ammissione del regista).
E se il contributo degli intervistati è fondamentale, lo è altrettanto l’apporto visivo di Philippe, che ha dovuto cambiare stile per cause di forza maggiore – il Covid rendeva impossibile fare la chiacchierate faccia a faccia – e quindi mai come prima (con la parziale eccezione del precedente The Taking, che però è stato appositamente concepito in tale maniera) si appoggia sul lato visivo, con il montaggio di spezzoni vari che accompagnano, completano e arricchiscono le parole scritte in modo divertente e a tratti anche inquietante (seppure in un contesto diverso, le immagini di Lynch rimangono una grande fonte di paura). Un viaggio illuminante nell’immaginario americano che forse non invoglierà i neofiti, perché all’interno della struttura coerente c’è comunque un approccio frammentario che si rivolge a chi la materia già la conosce, ma spingerà gli appassionati a rivedere il tutto con occhi nuovi, pronti a lasciare che Fleming e Lynch, due cineasti in dialogo perenne, ci trasportino al di là dell’arcobaleno.
E voi cosa ne pensate di questo? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo la recensione insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!
La recensione in breve
In Lynch/Oz, Alexandre O. Philippe cerca di decodificare il cinema di David Lynch con un intrigante, immaginifico viaggio che va dal Kansas a Twin Peaks passando per l'evoluzione della cultura popolare americana, attraverso interviste a registi e critici.
-
Voto ScreenWorld