Tira molto vento a Inisherin, ma non c’è aria. Sull’isola l’atmosfera è rafferma. Solite vecchie abitudini dure a morire per pochi abitanti altrettanto testardi. Maglioni infeltriti, gilet di velluto e camicie scozzesi per gente meschina, chiusa nelle proprie convinzioni da chissà quanto. Siamo passati dal Missouri alle coste d’Irlanda, ma il panorama umano non cambia più di tanto. Cinque anni fa Martin McDonagh ci portava nella rancorosa America di provincia con lo splendido Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, alle prese con l’odio, la giustizia e il perdono.
Nella nostra recensione de Gli spiriti dell’isola, in concorso a Venezia 79, capiremo quanto il nuovo film di McDonagh si inserisca nello stesso solco nonostante un approccio diverso. Coerente con una poetica d’autore che continua a esplorare le miserie dell’essere umano con un approccio quasi antropologico. Il tutto senza mai rinunciare a un distacco ironico e sarcastico, che prende atto delle nostre brutture in modo beffardo. Beffardo come un film che ti fa sogghignare a denti stretti, mentre sta scrivendo un manifesto sull’ignoranza.
Gli spiriti dell’isola
Genere: Drammatico
Durata: 109 minuti
Uscita: 2 febbraio 2023 (Cinema)
Cast: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan
La trama: nemici di colpo
Lontani da tutto e da tutti. Così si vive a Inisherin. Rinchiusi in una bolla, dentro una comunità che sembra ferma nel tempo e nello spazio. Sulla terraferma imperversa una guerra di cui arrivano soltanto echi lontani, mentre sull’isola si vivacchia tra noia e piccole gelosie. Un giorno Padraic vede crollare tutte le sue certezze quando il suo storico amico Colm decide di non frequentarlo più. Di colpo le solite chiacchierate, la solita birra al pub e la solita routine diventano un vecchio ricordo. Un imprevisto che l’uomo non riesce ad accettare, iniziando una guerra a distanza destinata a rievocare quella vera sulla terraferma.
Un parallelismo che McDonagh richiama più volte dentro un film che sembra quasi un esperimento sociologico. In che modo una tranquilla comunità immersa nella natura incontaminata potrebbe riuscire a farsi del male da sola? L’essere umano sa davvero convivere con i suoi simili senza cercare il conflitto? La risposta arriva poco per volta, dentro un film che non ha mai l’irruenza di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, che sembra quasi scritto a matita, ma riesce comunque a conquistare con pazienza e intelligenza.
Come cambia il vento
Guardare Gli spiriti dell’isola è come sfogliare un vecchio romanzo del Novecento. Di quelli da gustare in riva al mare in un pomeriggio d’autunno. Siamo a metà strada tra Kafka, Svevo e Pirandello, perché di quella letteratura amara non manca nulla: la figura dell’inetto (in questo Colin Farrell è quasi magistrale), l’impietoso ritratto della natura umana e soprattutto una passione per l’assurdo. Perché il pretesto che smuove la storia de Gli spiriti dell’isola sembra quasi una sciocchezza. Un capriccio destinato a scatenare un effetto domino che di razionale non ha nulla.
Ma se rievochiamo grandi romanzi, è soprattutto merito della scrittura sagace del solito McDonagh, piena di dialoghi taglienti e battute brillanti dal ritmo quasi musicale. Uno spartito che cambia tono col passare del tempo, perché il film parte sulle ali della commedia e poi scende lentamente nel dramma. Gli spiriti dell’isola cambia come cambia il vento: poco per volta ma in modo inesorabile. Un’evoluzione graduale, gestita a meraviglia da una sceneggiatura sapiente nell’avvolgere lo spettatore dentro un rapporto padre-figlio (surrogato) pieno di non detti e impregnato di rancore. Un braccio di ferro tra disgraziati in cui McDonagh ritrova l’affiatata coppia di In Bruges, e Colin Farrell e Brendan Gleeson sono perfetti nel duellare a suon di sguardi e birre negate.
Manifesto a Inisherin, Irlanda
C’è un aspetto che ci ha colpito molto de Gli spiriti dell’isola: il suo essere fuori dal tempo. Nonostante sia ambientato nel 1923, la storia potrebbe essere collocata in qualsiasi epoca (negli Sessanta così come nell’Ottocento) e nulla cambierebbe davvero. Un espediente che rende il film universale, un vero e proprio manifesto che descrive le derive dell’ignoranza, della mancanza di dialogo e dell’orgoglio più cieco tra uomini stupidi come asini. Tutto dentro un film che fa rabbia, ma non è arrabbiato. Un’opera quieta, soffusa, con qualche scossone in mezzo a tanta quiete, quasi arresa davanti alla stupidità umana. Eppure capace di nauseare lo stesso. Lo fa senza la forza dirompente di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ma senza rinunciare a un cinema dirompente. Perché se è vero che la gentilezza non viene ricordata da nessuno al contrario della grande arte, Gli spiriti dell’isola troverà sicuramente il suo posto tra i nostri ricordi.
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La recensione in breve
Un duello tragicomico tra due persone che sfocia in una fotografia della natura umana. Quella più miserabile, orgogliosa e testarda. Gli Spiriti dell'Isola fa sorridere a denti stretti, mentre descrive un panorama umano desolante e senza speranza.
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Voto ScreenWorld