Dopo Kenneth Branagh con Belfast e Steven Spielberg con The Fabelmans, anche Sam Mendes ha deciso di omaggiare il cinema con il suo nuovo film, sebbene non nella forma autobiografica scelta dai colleghi. Non c’è, infatti, un alter ego del cineasta inglese in questo racconto ambientato all’interno di una sala nei primi anni Ottanta, quando Mendes aveva 15-16 anni, e che racconta la settima arte dal punto di vista di chi accoglie il pubblico e non di chi, folgorato da bambino, ha poi deciso di diventare regista. È però probabile che, come per Spielberg, la spinta decisiva a livello di ispirazione sia stata dettata dalla pandemia, che ha messo in ginocchio l’intera industria cinematografica e portato gli addetti ai lavori a ricordare esattamente quanto sia preziosa per loro l’esperienza del grande schermo nel buio della sala. Tutto questo tra gli ingredienti della nostra recensione di Empire of Light.
Empire of Light
Genere: Drammatico
Durata: 113 minuti
Uscita: 23 febbraio 2023 (Cinema)
Cast: Olivia Colman, Micheal Ward, Monica Dolan, Tom Brooke, Toby Jones, Colin Firth
La trama: lavorare con la luce
Inghilterra, inizio anni Ottanta (le riprese si sono svolte a Margate, nel Kent). Tutto ruota intorno al cinema Empire, dove si consuma la routine quotidiana dello staff. A supervisionare l’entrata principale e la vendita di bibite e popcorn c’è Hilary Small, le cui mansioni includono anche frequenti discussioni private – per usare un eufemismo – con il capo, il signor Ellis. Quando Hilary fa la conoscenza del nuovo arrivato Stephen, per il quale lo schermo cinematografico è una magnifica fuga dalla realtà (nel suo caso particolarmente brutale perché è una persona di colore), la routine viene scombussolata, ma solo il tempo saprà dire se in meglio o in peggio.
Il cast: talento inglese
La presenza dominante è un’intensa Olivia Colman, che conferisce a Hilary il suo classico connubio di carisma e vulnerabilità. Al suo fianco, nel ruolo di Stephen, c’è Micheal Ward, giovane attore inglese di origine giamaicana che si è fatto notare in progetti come The Old Guard e Small Axe e nel 2020 ha vinto il BAFTA cinematografico come miglior interprete emergente. Il viscido Mr. Ellis è Colin Firth, ancora una volta alle prese con una parte in grado di demolire la sua classica immagine di divo comico e/o romantico, mentre Toby Jones sta un po’ sullo sfondo, per poi avere una presenza importante quando richiesto, nei panni di Norman, il proiezionista dell’Empire, un uomo che tratta l’apposita saletta come un tempio e non consente l’ingresso a nessuno.
Il fascino delle immagini
Come dicevamo in apertura, è meno strettamente autobiografico l’impulso che ha spinto Sam Mendes a girare il film, ma vi è indubbiamente lo stesso amore per la settima arte, per il potere della pellicola proiettata sul grande schermo, per lo charme del cinematografo come vero e proprio evento (all’interno di Empire of Light si parla di una proiezione speciale di uno dei grandi fenomeni britannici del decennio, Momenti di gloria, che vinse l’Oscar come miglior film nel 1982). Ed è proprio sul piano visivo che il viaggio nostalgico di Mendes evoca con potenza la magia del mezzo cinematografico, avvalendosi per la quinta volta della sontuosa fotografia dell’inglese Roger Deakins, vero e proprio divo nel suo campo (a Toronto, in occasione delle proiezioni di gala del film, è stato fermato per strada dai fan come se fosse una star di Hollywood), il quale restituisce con un miscuglio di verosimile e irreale il fascino ipnotico dell’esperienza in sala.
Dramma altalenante
Dopo 1917, dove era coadiuvato da Krysty Wilson-Cairns, per la seconda volta Mendes firma la sceneggiatura di un suo film, questa volta completamente da solo. Un dettaglio che è forse all’origine della natura un po’ squilibrata del progetto, formalmente ineccepibile ma in alcuni punti traballante a livello drammaturgico, con passaggi schematici e caratterizzazioni un po’ grezze (in particolare quella di Stephen, superficiale quando Mendes deve allontanarsi dall’escapismo della sala e raccontare la realtà esterna). In bilico tra i due mondi c’è Olivia Colman, impeccabile come sempre ma forse troppo grande per un progetto che le dà un arco narrativo completo a discapito di tutti gli altri, sacrificati in nome dell’ode alla settima arte.
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La recensione in breve
Sam Mendes riconferma il suo talento registico, coadiuvato dal direttore della fotografia Roger Deakins, ma a livello di scrittura il suo omaggio al potere della sala cinematografica presenta dei passaggi lacunosi.
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Voto ScreenWorld