Un attore si toglie la barba finta ed entra di prepotenza nel backstage del suo film. È stanco, disorientato, non capisce il senso di quello che sta facendo. Sarà il suo regista a rassicurarlo, dicendogli che non è importante capire il significato della messa in scena. L’importante è continuare a raccontare la storia. Basterebbe questa scena di puro metacinema per raccontare quanto l’ultimo film di Wes Anderson racconti lo spaesamento di un regista consapevole di essersi perso. Un regista che, però, non ha voglia molta voglia di cercarsi. E così continua a far girare la sua giostra simmetrica color pastello.
Una giostra che da anni gira e rigira su se stessa senza mai andare avanti. Apriamo la nostra recensione di Asteroid City, in concorso al Festival di Cannes 2023, in preda a una specie di rassegnazione. Il cinema di Wes Anderson ormai è questo: pura forma che domina la sostanza. Un teatro di marionette in cui va in scena il solito spettacolo di pura estetica. Sempre rassicurante e prevedibile: le solite geometrie, i soliti colori, i soliti movimenti di macchina. Il solito Wes Anderson. Ormai un brand, un’etichetta sul solito abito. Eppure, lo ammettiamo. Eppure qualche timido segnale risveglio rispetto al deludente The French Dispatch c’è. Come se fosse un avvistamento alieno che, invece di spaventare, rincuora. Anche solo per qualche attimo.
Asteroid City
Genere: Commedia
Durata: 104 minuti
Uscita: 23 maggio 2023 (Cannes), 14 settembre (Italia)
Cast: Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Adrien Brody, Tom Hanks, Maya Hawke, Jason Schwartzman
Lampi nel deserto
Inizia come una matrioska. Con una storia nella storia dentro una storia. Un narratore esterno (Bryan Cranston) inizia a raccontarci di uno scrittore (Edward Norton) impegnato a scrivere un copione che verrà poi messo in scena da un regista (Adrien Brody). Il risultato sarà Asteroid City, il racconto di un’immaginaria cittadina isolata da qualche parte nel deserto degli Stati Uniti d’America. Siamo negli anni Cinquanta e nella piccola comunità è stata organizzata una convention dedicata alle meraviglie scientifiche. Così genitori e figli saranno costretti a convivere in questo strambo villaggio messo anche in quarantena dopo un incontro ravvicinato con gli alieni. Insomma, Asteroid City è fin da subito la vivisezione di un processo creativo.
Un lungo esperimento narrativo con cui Wes Anderson si interroga sul senso del raccontare una storia. E così prova quasi a scuotersi da solo dopo un lungo torpore. Ogni tanto ci illude persino di aver ritrovato il vecchio tocco con qualche lampo: qualche sorriso strappato, qualche trovata vincente (l’approdo alieno, per noi, è bellissimo), qualche siparietto impregnato di quella vecchia tenerezza malinconica che ci ha fatto innamorare di Wes Anderson. Succede soprattutto quando abbozza una simpatica parodia della sua America. Quella che esaspera tutto, vede nemici ovunque e poi trasforma ogni cosa in show. Però, purtroppo, sono solo lampi nel deserto.
Esperimento fallito
La domanda allora è una: a Wes Anderson interessa ancora raccontare storie? È una domanda che lui stesso si pone lungo tutto Asteroid City. Un film che assomiglia a un lungo esame di coscienza. Ebbene, la risposta forse è no. Perché il regista texano preferisce soltanto metterle in scena, agghindarle, sistemarle. Come un sarto a cui non importa che al pubblico interessi la sfilata. E allora rieccoci nel solito luna park in cui se tutto è assurdo, niente diventa assurdo per davvero. Riecco la struttura sfilacciata, in cui la narrazione non segue un flusso, ma procede a sprazzi, come schizzi di colora lanciati sulla tela dalla tavolozza.
C’è la solita, maniacale ricercatezza visiva, impreziosita da scenografie e costumi minimali, capaci di evocare tanto anche con poco. Il ritmo è meno irrequieto rispetto a The French Dispatch, ma purtroppo (proprio come nel film precedente) i personaggi diventano spesso verbosi, con fiumi di parole buttate lì senza aggiungere mai qualcosa. E sì, anche questa volta il cuore del film fatica a venire a galla. Perché manca lo sguardo innocente che vede le cose con candore e ingenuità. Perché la sicurezza nei propri mezzi ha fatto smarrire un po’ della sincerità di un tempo.
Le solite marionette
Alla fine della fiera, allora, in questo assolato luna park nel deserto rimane in piedi soltanto una ruota panoramica. Un posto da cui ammirare il solito Anderson che si diverte a giocare con i suoi burattini. Perché ancora una volta tutti i membri di un cast foltissimo (e pieno di fenomeni) sembrano svuotati di talento. Tutti appiattiti sullo stesso piano, tutti monocorde e incapaci di aggiungere qualcosa di loro all’interno del film. Wes Anderson ha in mano un’enorme livella e col megafono sembra dire: “Signore e signori, siete nella mia recita e si gioca al mio gioco”. Nessuna eccezione alla regola è concessa. E mentre l’eco della voce di Wes si diffonde nel deserto, non resta che raccogliere qualche segnale del suo vecchio cinema, metterselo in tasca e sperare di tornare a emozionarsi ancora. Dopotutto essere consapevoli di avere un problema è già un primo passo per risolverlo.
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La recensione in breve
In Asteroid City, Wes Anderson mette se stesso al centro del villaggio. Lui e il suo amore per l'estetica. Lui e la sua allergia alle storie. Ne viene fuori il solito esercizio di stile consapevole dei propri limiti.
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Voto ScreenWorld