Secondo noi è la scena più bella, potente ed evocativa de Il potere del cane. Una sequenza che racconta tutto senza dire niente. Cinema puro. Lei suona il pianoforte in salone. Lui incombe dall’alto, come un falco sulla preda, suonando il suo fidato banjo. Due suoni in contrasto, proprio come Rose e Phil. Due suoni agli antipodi proprio come le recensioni americane ed europee del film di Jane Campion. Sì, perché il grande favorito della Notte degli Oscar, forte di 12 nomination, ha creato una voragine bella profonda tra gradimento made in USA e accoglienza nostrana (italiana soprattutto). Oltreoceano Il potere del cane ha entusiasmato per la profondità del suo dramma, mentre da noi il film non ha convinto tutti, lasciando critica e pubblico molto più tiepidi. Certo, non sono mancati i complimenti, ma va detto che molti spettatori hanno trovato il film Netflix lento, noioso e sopravvalutato alla luce delle 12 nomination agli Oscar. Allora cosa è andato storto? Da dove nasce questo divario? E cosa rende Il potere del cane un film complicato da apprezzare? Sellate i cavalli, perché proveremo a galoppare verso le risposte.
Abisso culturale
Le vaste praterie come l’Olimpo e i cowboy al posto degli dei. Per gli americani (o meglio, per gli statunitensi) il western è puro mito. Una nazione storicamente giovane come gli States ha trovato nel Far West terreno fertile per la propria mitologia, creando tante storie e personaggi da tramandare in cui riconoscersi. Per gli americani il western è un vecchio racconto che non tramonta mai. Perché il western è avvinghiato agli Stati Uniti come la resina sugli alberi. Per questo il cinema americano ha partorito western sin dai suoi albori, usando il genere come recinto in cui alimentare i suoi archetipi: il mito dell’eroe solitario e individualista, il fascino del fuorilegge, il desiderio di conquista, il senso di appartenenza alla terra e il miraggio del progresso. Tutti archetipi che Il Potere del cane sfrutta per ribaltare la percezione del western stesso. Capiamoci: il film di Jane Campion è un western di facciata, anche perché è ambientato negli anni Venti, con il Far West ormai alle spalle da qualche decennio. Però è innegabile che il film si inserisca sulla scia di quell’immaginario per poi andare da tutt’altra parte. A livello di simboli e stereotipi c’è tutto: il vasto paesaggio sempre sullo sfondo, un cowboy rozzo e rude, la vita di fattoria, i cavalli e le bande di balordi.
Però ne Il potere del cane non viene sparato nemmeno un colpo di pistola, e le dinamiche tipiche del western vengono evitate una per una. Niente rapine, niente scontri con nativi, niente terre da conquistare. Perché nel Montana del 1925 c’è spazio solo per un dramma in cui la tensione cresce lentamente. Un ribaltamento delle aspettative che, forse, è stato più apprezzato in America perché Il potere del cane si muove controcorrente in un habitat a loro familiare, ambientato in un contesto molto più vicino alla loro sensibilità che alla nostra. Quindi questa spaccatura tra recensioni americane e recensioni nostrane sembra una vero e proprio abisso culturale difficile da colmare. Perché gli statunitensi possono capire meglio la farsa di un uomo travestito da cowboy, e apprezzare la rivoluzione di un film che gioca a fare il western quando in realtà non lo è. Sembra un po’ il contrario di quanto successo con Eternals qualche mese fa. Un cinecomic molto vicino alla mitologia greca. Molto più stimato in Europa e abbastanza rifiutato dalle parti dello zio Sam.
Nascondersi dietro un cappello
Adesso veniamo a un’altra criticità de Il potere del cane. Non un difetto, sia chiaro, ma una peculiarità straniante, abbastanza rara e quindi difficile da apprezzare. Parliamo di Phil, parliamo del personaggio schivo interpretato da Benedict Cumberbatch, parliamo di un protagonista insolito. Un uomo riluttante, sprezzante, che si aggira per il film come un’anima in pena. Di solito siamo abituati a protagonisti con un obiettivo, con un desiderio o con un ostacolo da superare. A protagonisti appassionanti, insomma. Ecco, il nostro Phil non è niente di tutto questo. Cumberbatch ha dato vita a un uomo che sembra non avere desideri, incastrato nella sua routine, che trova sé stesso solo nel conflitto. Se la prende con suo fratello, con sua cognata e con il suo nuovo nipotino acquisito, che chiama “signorinella” per scolpire ancora meglio la sua aria da duro. Ecco, Phil è un personaggio strano perché va controcorrente tutto il tempo.
Mentre tutti gli altri personaggi vogliono andare avanti, costruirsi una vita, studiare e abbracciare il progresso di un’epoca in fermento, Phil vuole rimanere attaccato al mondo di prima, al Far West, a un mondo non morente ma già morto e sepolto. Alla fine del film capiremo il perché: per lui il caro, vecchio West è uno scudo, una corazza, quasi un travestimento. Un vecchio modo di concepire gli uomini che fa comodo a un uomo che ha un segreto da nascondere. Tutto quel fango, quel disprezzo e quella puzza che Phil si porta addosso un’ armatura per nascondere la sua vera natura. Così come Il potere del cane si nasconde dietro il western, il suo protagonista si nasconde dietro il Far West. A livello drammaturgico è davvero un guanto di sfida lanciato verso il pubblico, perché si lavora molto di sottrazione, di sfumature e di non detto. Uno stile di racconto molto (troppo?) sofisticato, abbastanza complicato da cogliere. Perché, diciamolo, il protagonista de Il potere del Cane è respingente e chiuso a riccio. Ed è un po’ come Balto: sa solo quello che non è.
Scivoloni
Premessa fondamentale: Il potere del cane ha una regia eccezionale e di gran classe. Jane Campion ha messo in scena questo dramma intimo con grande gusto estetico, dosando i chiaroscuri e facendo parlare tantissimo il paesaggio su cui si stagliano spesso le sagome dei personaggi. Per tutto il film, come detto, c’è grande senso della misura in tutto: nel ritmo e nel tono. Ed è proprio per questo che quando il film alza il volume sembra deragliare. Ci sono un paio di scene in particolare che stonano davvero con il resto dello spartito. La sequenza in cui Phil annusa il suo fazzoletto o quella in cui Rose va in estasi per la morbidezza di un paio di guanti sono davvero troppo cariche e stranianti. A questo bisogna aggiungere una scrittura davvero troppo didascalica, in cui i personaggi descrivono quello che stanno facendo e una gestione dei conflitti tra personaggi non proprio a fuoco, visto che nessuno dei contrasti di Phil vengono esplorati fino in fondo. Quello con suo fratello, con sua cognata e con suo nipote girando in tondo, rimangono in superficie, ma non affondando mai il colpo. Non appassionano mai davvero. Almeno secondo noi.
Vedremo se Il potere del cane sarà eletto il miglior film dell’anno dagli Oscar. Di sicuro resta un film affascinante proprio per la sua natura insolita e il suo stile così particolare. Un film che si specchia alla perfezione nel suo protagonista: rimanendo quasi incompiuto, inespresso e difficile da amare davvero.
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