“È come sposare una vedova”. Parole di Guillermo del Toro durante la lavorazione de Lo Hobbit. Una definizione lapidaria, che spiega alla perfezione quanto fosse difficile tornare nella Terra di Mezzo. Troppa pressione, troppe responsabilità e soprattutto troppi confronti. Il marito defunto era un fantasma che infestava troppo la Contea e il grande vuoto lasciato da Il Signore degli Anelli un fardello pesante come l’Unico Anello. E così, dopo varie riscritture e troppe indecisioni, il buon Guillermo decide di lasciare tutto, abbandonare l’altare e affidare la vedova alle mani dell’unico uomo che la conosceva davvero: un certo Peter Jackson. Insomma, il marito era ancora vivo, ma il viaggio è stato inaspettato per tutti. Per lui, che pensava di aver chiuso tutto con l’ultimo inchino al cospetto di Frodo e Sam.
Per il mite Bilbo, che amava tanto il comodo tepore di casa sua, e per noi spettatori, che intanto eravamo andati avanti facendoci ghermire da nuove saghe fantasy come Game of Thrones. È il 13 dicembre 2012 quando Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato arriva al cinema con il primo atto di una saga imperfetta e troppo infarcita per diventare una trilogia. Eppure nell’avventura verso le montagne nebbiose qualcosa da salvare c’è eccome. E no, non è soltanto cieco orgoglio nanico, ma una semplice presa di coscienza: forse 10 anni fa i veri vedovi eravamo noi. Ora che il tempo ha fatto il suo corso possiamo vedere le cose con più chiarezza, senza confronti e nostalgia ad offuscarci la vista. E allora ecco tre buoni motivi per rivalutare Lo Hobbit e il bello dei viaggi inaspettati.
1. Raccontare col design
1937. Grazie alla recensione di un bambino di dieci anni (il figlio dell’editore) il signore Tolkien riesce a pubblicare Lo Hobbit. Una storia che il professore scrisse pensando anche ai suoi figli. Di quel libro il bimbo di cui sopra scrisse: “Questo libro, con l’aggiunta di mappe, non ha bisogno di illustrazioni, è bello e dovrebbe attrarre tutti i bambini di età fra i cinque e i nove anni”. Aveva ragione: il viaggio verso Erebor di Bilbo Baggins è un’avventura per bambini, che Peter Jackson ha provato a trasformare in intrattenimento per adulti con l’animo dei ragazzi. Spirito d’avventura, voglia di scoperta e sguardo incline alla meraviglia. Un cambio di approccio drastico rispetto a Il Signore degli Anelli, che aveva una vocazione epica, adulta e realistica inarrivabile. Un cambiamento che si allontanava anche dall’amato stile crudo di Game of Thrones, che proprio negli stessi anni stava creando schiere sempre più numerose di fan. Per questo Jackson ha messo le cose in chiaro fin da subito con un’impostazione estetica ben precisa. Addio agli effetti speciali analogici in favore di effetti visivi massicci con cui ricreare una Terra di Mezzo meno verosimile e più fantastica, a tratti forse troppo plasticata e posticcia, ma sicuramente più fiabesca.
I colori sono più sgargianti, le tonalità più sature e soprattutto il design dei personaggi ancora più marcato. A partire dall’aspetto di molti nani della compagnia (su tutti Bombur, Bifur e Ori) passando per un Radagast sopra le righe e un ripugnante Re dei Goblin, Jackson ha optato per una caratterizzazione molto più carica e grottesca, fatta di espressioni bizzarre, forme esasperate e corpi deformi. Tutto raccontava soltanto attraverso l’estetica con un design narrativo molto ricercato, caratterizzato da una visione lampante (tutt’altro che piatta), che però semplicemente non incontrava il gusto del pubblico in quel preciso momento storico. Un momento in cui eravamo presi da un fantasy meno giocoso e più serio, che ci ha fatto storcere il naso davanti ai siparietti comici di Bilbo e soci. Forse era anche colpa delle nostre aspettative distorte, perché tanti pensavano che Terra di Mezzo fosse solo sinonimo di grande epica adulta. No, non è così. E allora ecco che Lo Hobbit ha tradito le aspettative con l’inaspettato. Uno shock a cui, forse, non eravamo ancora pronti.
2. Nani e hobbit: essere all’altezza
La vecchia guardia era tornata per rassicurarci, ma forse ha sortito l’effetto opposto, illudendoci. Il ritorno di Frodo, Bilbo, Gandalf, Legolas, Galadriel, Gollum, Saruman ed Elrond voleva essere una carezza per i fan, finendo per confonderci. Perché (una volta per tutte), no. Lo Hobbit non è come Il Signore degli Anelli. E il bello andava cercato nel nuovo, non nel vecchio. Certo, spesso sottovalutiamo il Gandalf leggermente diverso visto ne Lo Hobbit, impreziosito da una caratterizzazione più giocosa, sbadata e svampita di un sempre straordinario Ian McKellen (doppiato alla perfezione da un ispirato Gigi Proietti ludico come lui). Ma i motivi per cui Lo Hobbit andrebbe rivisto e riapprezzato sono soprattutto loro tre: Thorin Scudodiquercia e i due signori pescati dalla Londra investigativa di Sherlock. Perché da una parte quel fenomeno di Martin Freeman ha dato vita al miglior hobbit visto sul grande schermo (con una buona pace di Frodo e Sam a cui vogliamo sempre un gran bene). Grazie ai suoi tic, alle sue movenze e alla sua espressività che sprizzava vitalità, dubbi e curiosità con pochi sguardi, questo Bilbo incarna davvero l’anima di ogni hobbit: sospettoso ma di buon cuore, coraggioso proprio perché pieno di paure, furbo anche se privo di malizia. Un concentrato di piccole contraddizioni che Freeman ha incarnato dalla perfezione.
Dall’altra il suo geniale collega di Sherlock ci ha fatto bastare la sua voce calda, possente e cavernosa per dare vita al suo sontuoso usurpatore Smaug. Prestando volto e movenze all’imponente drago (o viverna, fate voi) ammaliato dalle ricchezze, Bendict Cumberbatch ha forgiato un personaggio capace di incutere puro terrore anche a parole senza affidarsi solo al suo aspetto minaccioso. E poi lui, il vero eroe tragico di questa storia. Quel Thorin che sembra uscito da un dilemma shakespeariano. Via di mezzo tra l’eroismo di Aragorn e le debolezze umane di Boromir, il principe dei nani interpretato da Richard Armitage ha carisma, carattere e quei limiti che ci fanno entrate in empatia con lui. Come tutti i grandi personaggi, anche Thorin ha conosciuto gloria e rovina, e non è un caso che le scene più belle dell’ultimo film della trilogia siano dedicate a lui. A cosa ci riferiamo? Alla fuoriuscite della Compagnia dei nani dalle porte di Erebor e alla sua morte davanti a Bilbo. Insomma, c’era del buono ne Lo Hobbit. E oggi è giusto combattere per esso.
3. Le piccole cose
Se c’è del buono è soprattutto nelle piccole cose. Ce lo ha ricordato Gandalf quando confessa a Galadriel di trovare in Bilbo il conforto necessario per combattere il Male. Perché il vero bene non è solo nelle grandi gesta ma anche in semplici atti di gentilezza e amore. E allora, se è vero che Lo Hobbit è un inno al bello delle piccolezze, Peter Jackson ha fatto bene a regalarci una trilogia che tocca i suoi apici proprio nei piccoli dettagli e nelle sequenze meno spettacolari. Pensiamo alla splendida sequenza degli indovinelli nell’oscurità con Gollum e Bilbo oppure allo scontro dialettico tra lo hobbit e Smaug tra i tesori di Erebor. O ancora all’abbraccio tra Thorin e Bilbo alla fine del primo film o alle parole di saggezza di Gandalf citate poco fa. Ecco, il meglio di questa trilogia non avviene nei campi di battaglia. Perché Lo Hobbit non ha fatto altro che celebrare parole, gesti e dettagli. Le cose piccole, appunto. Forse siamo noi a bramare sempre la grandezza, ambiziosi di capolavori. E quando ci troviamo davanti a qualcosa di buono e di più semplice finiamo col disprezzarlo. Dieci anni dopo, forse, è arrivato il tempo di cambiare idea. Come ci hanno insegnato Bilbo e Thorin, diventati amici lungo l’avventura.