“Sin dall’inizio dei tempi, sin da quando è esistita la prima fanciulla, ci sono state le bambole”; questa è la frase che apre il monologo d’apertura di Barbie, l’attesissimo lungometraggio di Greta Gerwig – e di cui trovate la nostra recensione qui. Sullo sfondo di un cielo ocra e di una terra che richiama l’iconico prologo di 2001: Odissea nello spazio, delle bambine giocano con le loro bambole, che hanno l’aspetto anch’esse di bambine, in un circolo vizioso che sembra voler suggerire un destino già deciso per le ragazzine. Poi, al posto del monolite dalla forma fallica su cui Kubrick ha costruito poi il suo capolavoro, emerge la figura della Barbie interpretata da Margot Robbie.
Sullo schermo non sono passati nemmeno cinque minuti, e in una manciata di frame la regista ha già dettato non tanto il ritmo della pellicola, quanto l’intento di inserire una donna in un mondo fatto di uomini. Barbie prende il posto di qualsiasi simbologia maschile e ne diventa la padrona. Questo è il punto di partenza di un film di cui non vogliamo fare alcuno spoiler, ma è soprattutto un punto di partenza per comprendere quanto la Barbie post-moderna portata da Greta Gerwig sullo schermo sia di fatto quella rivoluzione narrativa che stavamo aspettando.
Dalla donzella in pericolo alle donne forti
C’era una volta una principessa che aspettava il bacio del vero amore per essere salvata dal drago/tornare umana/resuscitare dopo un incantesimo. Scegliete la formula che preferite, ma di base il concetto è lo stesso. C’è una donna che rimane ferma, quasi letteralmente immobile, in attesa che un uomo venga a salvarla e a dare senso alla sua esistenza. La tradizione favolistica che ha raggiunto il grande pubblico grazie ai lungometraggi Disney si è spesso basata proprio sul concetto di donzella in difficoltà. Un concetto che poi, in letteratura, è stato affiancato da quello di Mary Sue: protagoniste innocenti e perfette che trovano senso nella propria esistenza solo quando vengono completate da un uomo.
Si tratta di un tipo di racconto che non riguarda le storie medievali o dei secoli scorsi: basta guardare anche alla recente storia del cinema per trovarne. Uno dei primi esempi che può venire in mente è Jerry Maguire, in cui il personaggio interpretato da Renée Zellweger non solo abbandona il suo lavoro per seguire le idee del suo love interest, ma riceve una “benedizione” quando il protagonista le dichiara il suo amore non elencando le caratteristiche di lei che lo hanno condotto all’innamoramento, ma soffermandosi sulla funzione che lei può avere per il suo ego, con quel “tu mi completi” diventato iconico.
Non vuol dire che questo tipo di storie siano sbagliate: erano storie dei loro tempi, che rispondevano alla cultura di quei tempi. A un certo punto, però, la cosiddetta damsel in distress ha cominciato a stancare il pubblico, che sentiva il bisogno di qualcosa di diverso. La donzella in difficoltà aveva forse esaurito il suo percorso: il pubblico desiderava quello che poi è diventato lo strong female character.
L’evoluzione dello strong female character: da Buffy in poi
Il manifesto di questo cambiamento può essere rappresentato da Buffy Summers, l’iconico personaggio portato sul piccolo schermo da Sarah Michelle Geller. Sulla carta, Buffy era il prototipo della “fidanzatina d’America”. Abiti alla moda, capelli biondi, una bellezza “californiana” e tutte le carte in regola per essere l’ennesimo prototipo della principessa da salvare. Ed è qui che scatta la prima rivoluzione: Buffy continua ad essere una cheerleader superficiale, con stivali all’ultimo grido e una vanità che non vuol essere estirpata. Ma, allo stesso tempo, è l’eroina che combatte i mostri, che salva i suoi compagni di scuola.
Buffy è forse il primo esempio mainstream della vera donna forte. Una donna che non è più solo bianca o nera, perfetta o peccaminosa, angelo o diavolo tentatore. Buffy rappresenta lo scardinamento di uno status quo. Il personaggio femminile ora è tutto: cheerleader e “loser”, amante dei balli scolastici e cacciatrice di vampiri, salvatrice del mondo ed esperta di cosmesi. Buffy era un personaggio che abbracciava la femminilità e la rendeva universale e non solo un mero strumento di genere. Si trattava di una protagonista che si liberava del peso di un vecchio retaggio da “donna angelo” e diventava una “persona vera”. Buffy – L’ammazza vampiri è una serie che è diventata iconica anche per questa rivoluzione.
L’anno dopo, al cinema, arriva Mulan, lungometraggio della Disney che ribalta ancora questo assioma. A differenza di Buffy, che è una donna forte vestita della vanità da sempre associata al mondo femminile, Mulan è una ragazza che rinuncia al suo aspetto femminile, nasconde tutti i segni e le caratteristiche del suo genere e si getta letteralmente in un mondo di uomini. La sua femminilità è costretta, quasi peccaminosa, qualcosa da tenere lontano dagli occhi indiscreti. Eppure è lei che “salva la Cina”, è lei l’eroina che sconfigge gli Unni. E, cosa assai più importante, è a lei che viene riconosciuto il merito della grande azione. Non è una pedina in una squadra, non è una ragazza affiancata da un grande uomo. Mulan è una donna a cui viene riconosciuto il merito del suo operato. Una rivoluzione narrativa che ha poi aperto le porte ancora di più all’avvento del prototipo della donna forte.
Il fallimento dell’idea
In un contesto come quello che abbiamo appena descritto, è chiaro che non c’è più posto per la “principessa” comunemente intesa. Si pensi, ad esempio, a Shrek. Fiona non è una principessa tradizionale e il suo percorso narrativo è volto a scardinare tutti i cliché fiabeschi legati alle figure femminili. Da questo punto di vista, proprio per questa sua capacità di destrutturare decenni di storytelling, Shrek ha rappresentato un ulteriore punto di svolta. Ma se facciamo più attenzione al personaggio di Fiona, è emblematico il fatto che la protagonista abbia comunque ancora bisogno dello sguardo maschile e del suo “permesso” per comprendere se stessa e imparare ad accettarsi.
Già da questo lungometraggio, che risale al 2001, si può intravedere come la costruzione dello strong female character abbia mostrato sin dall’inizio delle crepe che hanno portato poi la figura ad essere a sua volta un cliché, fallendo nell’ereditare quelle caratteristiche di cui Buffy aveva gettato le basi. Le donne forti non erano più donne “reali”, ma molto spesso erano personaggi create in modo meccanico e artificioso, che utilizzavano una certa durezza per rappresentare una forza che in realtà non avevano.
Il caso più recente è quello del personaggio che Hayley Atwell interpreta in Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno. A prima vista il personaggio di Grace ha un potenziale smisurato: è intelligente, abile nel suo lavoro, egoista e con la risposta sempre pronta, per tenere testa al protagonista maschile. Ma per tutto il film questa costruzione rimane ferma “sulla carta”. Grace diventa solo una ragazza con un buon senso dell’umorismo che vuol far vedere di essere forte ma ha bisogno di essere salvata – persino da se stessa – ogni volta che prende una decisione o che compie un’azione.
Inoltre, quando si cerca di portare sullo schermo la “donna forte” ci si concentra solo su questo: deve essere forte. Captain Marvel è forte. Galadriel è una leader. Helena, dell’ultimo capitolo di Indiana Jones, sa resistere agli inseguimenti e sfida il villain. Ma è tutto qui. Se il protagonista maschile può essere forte, maschile, fragile, ironico, pieno di difetti, le donne forti non possono essere altro: un cliché di una forza che molto spesso è semplice testardaggine scritta in modo non eccelso.
L’arrivo di Barbie e della sua rivoluzione
Poi, naturalmente, è arrivata Barbie.
La protagonista del film di Greta Gerwig è quella che davvero eredita ciò che Buffy aveva cominciato a costruire alla fine degli anni Novanta. Non perché – o non solo – perché è quel classico personaggio che “si salva da solo”, ma perché, come recita anche la frase di lancio del film, lei può essere tutto quello che vuole. Barbie è un personaggio rivoluzionario non per la bellezza statuaria di Margot Robbie, non per la sua capacità di accettare le sfide: è un personaggio rivoluzionario perché ha il suo lato oscuro, il suo reticolo di cicatrici e ferite, i dubbi che le ronzano in testa. Barbie è lo strong female character non perché è una donna forte che sa quello che deve fare, ma perché è una donna che è costretta ad essere forte nonostante stia cadendo a pezzi.
È nella libertà che ha questo personaggio di essere imperfetto che si annida la rivoluzione di Greta Gerwig. Non vogliamo farvi alcuno spoiler – Barbie è davvero un film che deve essere vissuto in prima persona -, ma è necessario comprendere questo. Sotto il trucco perfetto e la bellezza di Margot Robbie che riempie lo schermo, c’è un mondo oscuro, però profondamente reale. Tra i toni del rosa shocking e le sfumature pastello, Barbie nasconde il suo senso di inadeguatezza, le sue paure, il suo timore di volere qualcosa di diverso. Greta Gerwig dipinge con la sua scrittura un personaggio femminile che ha a che fare con la depressione, con la sensazione di non poter essere abbastanza. “Non sono brava in niente” dice a un certo punto, dando voce a quella sindrome dell’impostore di cui le donne sono vittime in percentuali maggiori rispetto agli uomini, perché da sempre abituate a dover dimostrare qualcosa.
Ecco perché Barbie è il personaggio della donna di cui avevamo bisogno: perché non sempre è forte e non sempre lo vuole essere. E paradossalmente la sua forza emerge maggiormente quando annuncia la sua fragilità, quando nonostante l’aspetto si sente una donna comune. Una donna come tante. Non straordinaria. Non unica. Non forte da poter lasciare la propria impronta nella storia. Una donna, punto e basta. Che a volte riesce a salvarsi da sola e a volte ha bisogno dei suoi amici. Una donna che può indossare i tacchi alti così come le birkenstock. Che può essere una bambola di plastica, ma sa essere anche una creatura di cuore, sangue e debolezze. Una donna che è tante cose insieme: cose che è lei a scegliere e che non le vengono imposte. E quelle che, al contrario, sono determinate dalla cultura e dallo status quo sono le stesse che rifiuta, a cui volta le spalle, per inseguire se stessa. Per essere la rivoluzione narrativa che stavamo aspettando senza nemmeno saperlo.
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