Sebbene sia una sezione generalmente poco frequentata dal grande pubblico della Mostra di Venezia, la Settimana Internazionale della Critica non presenta soltanto opere ermetiche e di difficile interpretazione. Anzi, nell’edizione 2024 quasi tutti i titoli sono stati in grado di articolare narrazioni stratificate a tal punto da suscitare reazioni positive – se non proprio entusiaste – in un pubblico decisamente eterogeneo. Tra tutte, la pellicola che forse vi è riuscita meglio è proprio quella che ha conquistato il Premio del Pubblico offerto da The Film Club: Paul and Paulette Take a Bath, diretto e sceneggiato da Jethro Massey. D’altronde, esattamente come i due protagonisti, Massey ingaggia con lo spettatore un gioco di ruoli, vestendo il suo film con gli abiti della rom com e del road movie per celarne un’essenza più riflessiva e problematica. Cerchiamo quindi di decostruire questo arguto gioco di apparenze, messe in scena e orrori collettivi.
Una rom com deliziosamente cinefila
Paul (Jérémie Galiana) e Paulette (Marie Benati) si incontrano per caso a Parigi, in Place de la Concorde, dove lei sta inscenando la decapitazione di Marie Antoinette. Cercando di fotografarla di nascosto, Paul viene coinvolto in un gioco apparentemente innocente, che prevede di ripercorrere e rimettere in scena svariati crimini del passato negli esatti luoghi dove sono avvenuti. Durante il gioco i due intessono un’insolita amicizia, riuscendo a costruire uno spazio intimo e personale che permetta ad entrambi di fuggire dai traumi della propria vita, i quali tuttavia non tarderanno a ripresentarsi nei momenti più inaspettati.
Nel 1979 Pierre Sorlin realizzava con un misto di stupore e fascinazione, come la ripetizione di formulare di alcuni elementi nei prodotti audiovisivi, lungi dal generare noia nello spettatore, provocasse una sorta di assuefazione (lui lo definì “effetto cumulativo“. Ovvero, più una formula viene ripresa e riproposta con minime variazioni sul tema, più il pubblico finirà per ricercarla e richiederla ai produttori, scivolando impercettibilmente in quella zona di comfort e familiarità che coccola la nostra mente. A livello neuronale, la ripetizione è infatti capace di suscitare una vasta gamma di piaceri, tra i quali quello derivante dal controllo su una data situazione. Ebbene, Paul e Paulette riprende con calibrata precisione molti dei crismi della romantic comedy, sfocando in seguito in un singolare, ma pur sempre riconoscibile, road movie. All’interno di questa intelaiatura Massey inserisce poi una serie di rimandi specifici, come l’evidente richiamo a Bertolucci e il suo Ultimo tango a Parigi – i protagonisti condividono anche il nome -oppure all’iconico Il favoloso mondo di Amélie, con il quale a sua narrazione condivide l’iniziale voiceover. Ancora, il personaggio di Paulette conduce un’esistenza precaria quasi quanto quella della Francis Ha ideata da Gerwig e Baumbach, oltre a rientrare perfettamente nella descrizione di “manic pixie dream girl” coniata da Nathan Rabin (con il conseguente rischio di rimanere una figura ancillare, funzionale all’arco narrativo del protagonista maschile). A coronare una composizione già molto raffinata, l’inquietante fascinazione di Paul e Paulette offre uno sfogo ai desideri più perturbanti e reconditi che abitano ciascuno di noi e ci spingono – pulsione di morte, la chiamerebbe forse qualcuno – verso l’orrorifico, il delitto, l’atroce, salvo poi rimanerne irrimediabilmente ustionati. Insomma, la narrazione ha un altissimo potenziale di coinvolgimento degli spettatori, trascinando in una vicenda che difficilmente saremo mai stanchi di ascoltare.
Declinazioni di un reenactment
Eppure – bisognava che ci fosse un eppure – il gioco messo in scena da Massey è più raffinato e complesso di così. Il vero cuore della pellicola, infatti, viene svelato nell’iconica scena richiamata nel titolo. I due protagonisti stanno infatti facendo un bagno nei panni, rispettivamente, di Hitler (Paulette) ed Eva Braun (Paul). Rispetto ai numerosi reenactment precedentemente messi in scena, questo presenta due peculiarità. E’ infatti l’unico in cui viene sottolineato – con risatine condivise anche al pubblico in sala – uno scambio di genere; inoltre, è il momento in cui più rischiano di confondersi il piano della realtà e quello della fantasia, poiché i due hanno appena dato sfogo ad una latente attrazione sessuale percepibile dall’inizio dell’opera. Questi due aspetti rivelano così il vero fulcro tematico della pellicola: il reenactment tanto come archivio di memorie incorporate, quanto come performance nel senso butleriano del termine.
Il gioco a cui si sono incautamente concessi i due personaggi è infatti un pericoloso scavo alla ricerca di un’identità, in entrambi i casi, rotta e traumatizzata da vicende personali mai realmente rielaborate. Nella messa in scena di vite altrui, i loro due corpi ne incarnano la memoria e ne diventano archivio attivo, attraverso un processo di riappropriazione e risignificazione nel e per il presente. Il reenactment sovverte così la linearità logico-cronologica, mettendo in comunicazione momenti temporali distinti e convenzionalmente distanti. La loro è quindi una danza come quella proposta da Charmaz nel suo 20 dances for the 20th century: una collezione di gesti, sguardi e movimenti che aiutino ad abitare un po’ meglio un presente tanto ostile. Ma Paul e Paulette vanno oltre l’archivio di corpi e si perdono nel performativo, che come insegna Judith Butler ha una componente essenzialmente generativa, piuttosto che imitativa. Ovvero, nel replicare i crimini del passato i due protagonisti stanno in realtà giocando a plasmare la propria identità, non solo in una prospettiva di genere – aspetto che chiaramente risalta per primo nella messa in scena (“Chi vuoi essere, Hitler o Eva? Sarò Eva”). Il film avrebbe potuto spingersi più in là, fino a denunciare l’assenza di identità fisse e immutate, celebrando la dimensione processuale e dinamica degli individui, ma sceglie di fermarsi prima. Il gioco infatti porta i due ragazzi a rielaborare dolorosamente i propri traumi, riconoscendosi come individui rotti ma capaci di ricostruirsi e abbracciare la propria dimensione più autentica. Alla fine, sembra suggerire la pellicola, per la nostra generazione lacerata da una nuova precarietà esistenziale, è possibile riscoprire una qualche forma di integrità che renda la propria vita quanto meno tollerabile.