“Ho tutto”. Queste le fatidiche parole pronunciate da Man-su mentre abbraccia i suoi cari in giardino. Un bravo padre di famiglia che si gode il suo perfetto nido: due figli, due cani, una bella moglie, un lavoro rispettabile. Peccato che quel bel nido sia fatto di carta (letteralmente) e stia per andare in fumo. Il brav’uomo viene licenziato dopo venticinque anni di onorata carriera in una prestigiosa industria di carta ed è costretto a cambiare vita. Addio alla bella villa, addio a quel vecchio lavoro, addio alle certezze. La granitica mascolinità da pater familias di Man-su viene minacciata da più fronti. E i dubbi si insinuano ovunque, toccando la fedeltà della consorte e soprattutto la sua fama da brava persona.
Su una cosa, invece, non abbiamo dubbi: Park Chan-wook ci ha regalato un altro grandissimo film. Un’opera feroce, vivace, intelligente. Una fotografia impietosa della precarietà esistenziale in cui siamo immersi tutti, senza limitarsi a inquadrare solo il Sud Corea. Dopo La Grazia di Sorrentino, il suo No Other Choice è il secondo film visto qui a Venezia che ci ha fatto uscire dalla sala con la pancia piena. Pancia piena e uno strano sapore in bocca. Amarognolo come questo film che ci ricorda una volta per tutte come si scrivono e girano le grandi commedie.
Cinema di carta

Tutto merito della carta. Si parte da un libro, che Park Chan-wook legge più di vent’anni fa. Si chiama The Ax, è scritto da Donald E. Westlake e racconta la storia di un uomo che considera la carta la sua unica ragione di vita. Un amore viscerale per qualcosa che altri potrebbero considerare accessorio e marginale, che colpisce nel profondo Park Chan-wook. Così, il regista inizia a lavorare a uno script, immaginando un adattamento per il cinema. Nel 2005 lo anticipa Costa-Gavras, che lo porta in sala con Cacciatore di Teste. Solo che per Park Chan-wook il cinema è come la carta per il protagonista di quel libro: un’ossessione che non va via. Ecco perché, dopo diciassette anni di gestazione, No Other Choice sembra il titolo perfetto per un regista che non aveva altra scelta.
Proprio come il protagonista Man-su. Un uomo trascinato dentro un turbine di eventi che lo porta a fare cose orribili per una giusta causa. Come una specie di Breaking Bad condensato in due ore e mezza di grande cinema, No Other Choice ci invita a scendere gradino dopo gradino lungo una scala a chiocciola diretta verso un piano disperato: riprendersi la propria vita. Ma è davvero solo questo? La grandezza di Park Chan-wook è anche nell’essere moralmente ambiguo. Nel non concedere al pubblico facili letture e facili giudizi sui personaggi. Perché le scelte immorali di Man-su sembrano inquinate anche dall’orgoglio, dalle aspettative sociali e dalle pressioni di una società sempre più divorata dal capitalismo. Si fa presto a dire “amore per famiglia”, ma No Other Choice scava molto sotto la superficie. E il pubblico si ritrova con la pala in mano e le mani sporche di fango, cercando la sua verità.
Il nuovo Parasite?

Molti paragoneranno questo film a Parasite di Bong Joon-ho. Paragone inevitabile, ma forse troppo frettoloso. Di Parasite ci sono la ferocia, le esplosioni di violenza, alcune sequenze volutamente grottesche ed esasperate, ma il cuore di No Other Choice batte altrove. Parasite era pura lotta di classe. Era povero contro ricco. Qui, invece, si sguazza nello stesso stagno. È l’alta borghesia che non vuole mollare la presa e non vuole scendere in classifica. Qui siamo più dalle parti di una commedia dove la famiglia è il vero mistero da risolvere. Una famiglia dove si parla poco e ci si conosce ancora meno. Tutti troppo presi a vestire i propri ruoli per stare davvero assieme nonostante gli abbracci in giardino. Così Park Chan-wook si insinua nelle crepe, nei segreti, nei dubbi e nelle cose non dette. Lo fa con un film sofisticato senza mai diventare ostico.
Sempre accessibile, appassionante (nonostante ci metta un po’ a ingranare) e dal taglio forse mai così pop per il regista. Merito di una regia come sempre magistrale. Magistrale nel giocare con le immagini, sempre irrequiete e imprevedibili (tra dissolvenze geniali e inquadrature mai banali). Un saggio di messa in scena di puro talento, che non diventa mai sfoggio o esercizio di bravura fine a se stesso. Come se per Park Chan-wook il cinema fosse davvero carta bianca con cui divertirsi e fare di tutto, visto che le immagini le appallottola e le srotola con una disinvoltura appassionante. Carta preziosa, che permette a un grande regista di scrivere un’altra pagina di grande cinema.