Did you know that most filmmakers spend their entire lifes making some version of the same movie?
Osservando certe monografie, diventa evidente come alcuni temi centrali ricorrano incessantemente: la carenza affettiva nei film di Lanthimos o la criminalità organizzata in quelli di Scorsese. Zia Anger sembra inserirsi perfettamente in questa comunità di cineasti che, nel corso della loro carriera, continuano a riproporre e rielaborare i pochi temi a loro cari. Nella sua breve carriera Anger ha, per ben tre volte, giocato con i temi del suo primo lungometraggio Always All Ways. My First Film non è il primo film della regista statunitense, e paradossalmente non è nemmeno il suo primo film con questo titolo, ma si tratta piuttosto di una riflessione sulla catastrofe che fu la sua opera prima, girata all’età di 25 anni. Anger rimugina su l’accaduto, ritorna su quella storia, sulla sua storia, per cercare di capire cosa sia andato storto, cosa sarebbe stato possibile evitare, trasformando la sua esperienza personale in una profonda riflessione su cosa significhi realmente la creazione artistica.
My First Film si apre con una pagina bianca. Il cursore di testo lampeggiante. Una evidente difficoltà nel comprendere come dare inizio al racconto. “This probably shouldn’t be a film… but it is.” sono le prime parole che lentamente appaiono, subito seguite da video di Anger che danza, interagisce con la videocamera, denudandosi, metaforicamente e no, per poter raccontare la sua intima storia. Poi la voce di Vita, avatar di Anger, interpretata da Odessa Young, inizia a narrare la sua storia, cominciando con il rifiuto di una proposta di cortometraggio giudicato troppo esoterico. E così My First Film parte proprio da qualcosa apparentemente capitato a pochi, come un aborto o un film abbandonato, ma che in realtà può essere capito da molti, relativizzando il concetto stesso di esoterico. Vita ritorna con spirito critico sul suo primo film Always All Ways, ispirato dalla storia vera della regista, rimasta incinta adolescente. Lei e i suoi amici, presi dall’euforia dell’atto creatore, si inoltrarono in un’impresa più grande di loro, tra giovinezza, ebbrezza e false speranze in un progetto che costò quasi la morte di uno di loro.
Cosa avremmo potuto fare differentemente? Perché non ci siamo presi cura degli altri? Com’è possibile sentirsi geniali, unici, un momento e poi completamente soli quello successivo? Una forma di egocentrismo ignorante che rende al tempo stesso geni e nullità. La solitudine, con delle note di narcisismo, la tormenta e si domanda, ci domanda, come sia possibile credere che certe cose capitino solo a noi. La rassicurante risposta, sorprendentemente semplice, è che sono esperienze comuni; semplicemente, prima non lo sapevamo. L’incertezza iniziale, su come cominciare il film, e come affrontare una gravidanza, si tramuta in una forza interiore. Così Vita, proprio come Anger, porterà a termine il suo “abbandonato” film e la sua seconda indesiderata gravidanza.
Zia Anger dimostra una libertà e padronanza del mezzo cinematografico alternando finzione e realtà in maniera fluida: video personali di lei e dei suoi genitori, documenti Word, fermi immagine, tutto si fonde in un modo così leggero da risultare, a volte, impercettibile. Il confine tra vita reale e arte è malleabile, quasi inesistente. My First Film è un’ode agli errori della gioventù, un’esplorazione del loro perenne ricordo, ma anche una celebrazione della forza che da essi può emergere per continuare a creare.
Gli insuccessi di Anger, la hanno portata a comprendere che non esiste una fine al processo creativo. I ricordi dei fallimenti rimangono, sono una parte integrante di noi, così come la necessità di creare qualcosa di nuovo. Il processo creativo è sempre difficile, caratterizzato da momenti di isolamento, ma la vera gioia della creazione risiede nell’atto di lavorare con persone appassionate. Così la felicità iniziale, quella catturata nella foto del primo giorno di riprese, in cui regna la spensieratezza di Vita e dei suoi amici, si tramuta nella felicità finale sul set del film. La finzione cinematografica si dissolve svelandoci la realtà della finzione: elettricisti, attori, operatori, la videocamera riflessa nello specchio. Vita e Zia che discutono su come terminare il loro film, prima di ritornare, per un’ultima volta nella finzione della realtà, questa volta però, espressamente resa finzione. L’aborto, sia quello reale che quello metaforico del suo primo film, viene rappresentato in un modo tanto acuto quanto delicato. Caloroso, rassicurante, ma soprattutto necessario, ci ripete che in quello che facciamo non siamo mai soli e che, in fondo, questa è una storia Vera.
E voi cosa ne pensate di questo? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo la recensione insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!
Conclusioni
Zia Anger ritorna criticamente sul fallimento del suo primo film per farne un’ode agli errori della gioventù dimostrando una liberatoria padronanza del mezzo cinematografico.
-
Voto ScreenWorld