La quiete iniziale; l’insorgere di un’anomalia; la manifestazione del mostruoso. Sono i tre atti che costituiscono l’ossatura drammaturgica di buona parte dei film horror: uno schema ricorrente a cui non si sottrae neppure Men, il terzo lungometraggio da Alex Garland e il primo in cui l’autore di Ex Machina abbandona i territori della fantascienza. Tuttavia, il rispetto di questa tripartizione canonica non impedisce a Men di risultare un’opera piuttosto lontana dalle convenzioni del genere di riferimento: si tratta infatti di un film che prende in contropiede gli spettatori, in particolare in un visionario terzo atto che abbatte ogni certezza della protagonista e che provocherà più di qualche discussione all’uscita della sala.
Lo anticipiamo subito: Men è una pellicola destinata a dividere le platee e ad alienarsi una copiosa fetta di pubblico, come del resto è già accaduto in America. Ma se l’esasperazione grottesca della sezione finale, un’autentica apoteosi di surrealismo, sembra fatta apposta per suscitare reazioni estreme (nel bene e nel male), i due atti precedenti ci forniscono un encomiabile saggio di come l’horror, pur richiamandosi a elementi della tradizione, sia ancora in grado di spiazzarci e di giocare con le nostre aspettative in maniera tutt’altro che banale. Ecco, da tale punto di vista Men si attesta, a nostro avviso, come uno dei migliori thriller degli ultimi anni: non perché sia un film impeccabile (non lo è), ma per la sua capacità di produrre angoscia attraverso un lavoro certosino sui dettagli.
La normalità che cela il mostruoso
Se nell’horror la tendenza più diffusa consiste nel “premere l’acceleratore” fin dal secondo atto, qui Alex Garland fa una scelta opposta: rallentare l’azione e, al contempo, offuscare il mostruoso dietro una patina di normalità, perlomeno per tutta la prima ora di durata. All’inizio del film, dopo il frammento di uno scioccante flashback, accompagniamo la giovane Harper Marlowe nel suo tragitto in auto da Londra verso il cuore della campagna inglese, nella solitaria villetta che la ospiterà per le due settimane successive. Harper è interpretata dall’attrice irlandese Jessie Buckley, che torna a offrirci il ritratto di uno smarrimento in un altro rompicapo surrealista dopo Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, mentre Geoffrey, il suo premuroso affittuario, ha il volto di Rory Kinnear: un volto che, sotto altre sembianze, incontreremo in più occasioni nel corso della vicenda.
Nella valle del perturbante
Appunto, l’assurda somiglianza di Geoffrey ad altri abitanti del fittizio villaggio di Cotson rappresenta un esempio della tecnica adoperata da Garland per indurci in un’atmosfera di inquietudine: far leva, più che sulla paura in sé, sul perturbante. In confronto alla sorpresa di un jumpscare o al panico generato dall’eccezionalità di un momento clou, il perturbante agisce in maniera molto più sottile, ma con un effetto più prolungato e intimamente disturbante: esso, infatti, scaturisce dalla nostra percezione del contrasto fra una situazione di apparente familiarità e l’individuazione di una componente estranea ed indecifrabile. Ed è proprio su questa componente che Men, descrivendoci una ‘semplice’ giornata di vacanza di Harper, innesta un meccanismo di progressiva tensione: senza fretta, ma al contrario puntando quasi a sminuire e dissimulare i motivi di preoccupazione per la protagonista.
L’ombra del dubbio
C’è davvero una minaccia che incombe su Harper o ciò che vede e che ascolta è deformato dal suo inconscio? È un interrogativo già ritrovato in numerosi cult del passato, costruiti attorno ai tormenti di una donna dalla psiche instabile: da Repulsion e Rosemary’s Baby di Roman Polanski a Images e Tre donne di Robert Altman, da Mulholland Drive e Inland Empire di David Lynch a Il cigno nero e Madre! di Darren Aronofsky, per citare solo i casi più noti (e senza scomodare il filone ‘visionario’ di Ingmar Bergman). Ecco, Men si inserisce nello stesso alveo: non ha fretta di spaventare gli spettatori, ma preferisce tenerli in una condizione di dubbio (il rischio paventato è reale o no?) e di attesa. E per farlo, gli basta ‘increspare’ la dimensione di idillio bucolico di Harper: una passeggiata nel bosco, immersa nello splendore estatico della fotografia di Rob Hardy, può trasformarsi in un viaggio nell’oscurità; un’indistinta sagoma in fondo a un tunnel diventa un misterioso pericolo.
Riconoscere il male
Chi sono, d’altronde, gli ‘spauracchi’ del film? Un balordo prontamente bloccato dalle forze dell’ordine prima che possa penetrare in casa; un ragazzo dal linguaggio scurrile con indosso una maschera di Marilyn Monroe; l’opprimente ricordo di un uomo il cui rapporto con Harper si è concluso in tragedia. Nessun mostro, se non in senso metaforico: perché allora, se entriamo in empatia con la protagonista, Men riesce a colpirci così in profondità? Forse perché, in quelle lievi ‘dissonanze’ di una tranquilla giornata in campagna, avvertiamo il peso di un malessere strisciante, che non ha bisogno di incarnazioni orrorifiche per lasciarsi identificare. Il male, pare suggerirci Garland, è già tutt’intorno a noi: nell’eco sinistra di una galleria, nella figura umana che si staglia in lontananza, nelle parole velenose di un vicario o nelle persone che credevamo di amare. O magari è soprattutto nello sguardo di chi, come Harper, ha imparato a riconoscerlo («Have your eyes really seen?», recita Elton John nell’epilogo) e, dopo una notte di delirio, perfino ad accettarlo, sostituendo alla rabbia un tenero compatimento.