«George potrebbe anche aver ragione sull’automobile: il balzo in avanti che essa rappresenta potrebbe essere un balzo indietro nella civiltà. Forse non aggiungerà nulla alla bellezza del mondo o a quella dell’anima umana… non posso dirlo. Ma ormai l’automobile esiste». Nella replica di Eugene Morgan, imprenditore dell’industria automobilistica, al cinismo del giovane George Amberson, rampollo di una ricca dinastia dell’Indiana, è racchiuso uno dei temi-chiave de L’orgoglio degli Amberson: l’ineluttabilità del progresso. Non si tratta, tuttavia, di una fiduciosa celebrazione del positivismo, quanto piuttosto della presa d’atto che il corso della Storia è inarrestabile e concede solo due alternative: adattarsi o soccombere.
E nel suo secondo lungometraggio cinematografico, Orson Welles parlava proprio di questo: il tramonto di un’epoca e dunque di un sistema politico, economico e sociale, spazzato via dall’ascesa del capitalismo imprenditoriale sulla scia della Seconda Rivoluzione Industriale. Da sempre messo in ombra dall’esordio di Welles, L’orgoglio degli Amberson debutta nelle sale statunitensi il 10 luglio 1942, cioè a meno di un anno di distanza dall’uscita di Quarto potere. L’estrema prossimità a Citizen Kane, autentico film-spartiacque nel passaggio del cinema americano dal classicismo alla modernità, contribuisce forse alla sorte non troppo felice di questa travagliata opera seconda, che Welles realizza sulla base del romanzo I magnifici Amberson di Booth Tarkington.
I magnifici Amberson e il tramonto di un’epoca
Ambientata nella cornice della Belle Epoque, a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo, la pellicola è imperniata sul confronto fra gli Amberson, esponenti dell’altissima borghesia del Midwest, e il ceto dei cosiddetti “nuovi ricchi”, incarnato dall’Eugene Morgan di Joseph Cotten e dalla sua giovane figlia Lucy (una Anne Baxter appena diciottenne). Al cuore della vicenda vi è l’arrogante George Amberson, che ha il volto di Tim Holt (star del genere western): accomunato a Charles Foster Kane dal carattere autoritario e dalle ossessive manie di grandezza, George tratta con sufficienza Eugene (pur essendo innamorato di Lucy), guarda con disprezzo all’avanzata della borghesia imprenditoriale e non tollera i pettegolezzi su sua madre Isabel (Dolores Costello), oggetto in passato del corteggiamento di George, al punto da impedire qualunque contatto fra i due.
Vittima dei propri pregiudizi, alimentati anche dalla livorosa zia Fanny (una superba Agnes Moorehead, qui al suo secondo ruolo al cinema dopo Quarto potere e alla sua prima candidatura all’Oscar), George assisterà impotente allo sgretolarsi della fortuna degli Amberson, fin quando non dovrà piegare il proprio orgoglio alla necessità di mantenere quel che resta della famiglia. Ma nel film, questa parabola discendente si sviluppa con rapidità insolita e con un frequente ricorso alle ellissi: una scelta emblematica della storia produttiva de L’orgoglio degli Amberson, e nello specifico degli oltre quaranta minuti rimasti sul pavimento della sala di montaggio. Se infatti, con Quarto potere, Orson Welles aveva goduto di una libertà produttiva pressoché inedita a Hollywood, stavolta la RKO, intimorita dalla possibilità di un insuccesso di pubblico dopo alcune anteprime non troppo incoraggianti, affida al montatore Robert Wise il compito di ridurre la durata rispetto ai centrotrenta minuti iniziali e di inserire un lieto fine ad hoc per bilanciare la cupezza del racconto.
La grande occasione mancata di Orson Welles
I cambiamenti apportati da Wise su ordine della RKO e senza il consenso di Welles, bloccato in Sud America, non basteranno a impedire un destino che appare già segnato. Quando L’orgoglio degli Amberson approda al cinema gli Stati Uniti sono da poco entrati in guerra dopo il disastro di Pearl Harbor, e il lucido pessimismo del film non è esattamente ciò di cui la maggior parte degli spettatori va in cerca in un periodo simile: nell’estate del 1942, a riempire le sale americane sono infatti il patriottico biopic musicale Ribalta di gloria di Michael Curtiz e soprattutto La signora Miniver di William Wyler, elegia della resilienza del popolo britannico contro la minaccia nazista. L’orgoglio degli Amberson, al contrario, fa registrare oltre mezzo milioni di dollari di perdite alla RKO, pur ottenendo l’approvazione della critica e quattro nomination agli Oscar (nell’edizione dominata, non a caso, da La signora Miniver).
Nella carriera registica di Orson Welles, che da lì a una decina d’anni, con l’insorgere del maccartismo, sarà confinato ai margini di Hollywood, questo film costituisce pertanto il perfetto esempio di un “capolavoro mutilato”, nonché un’ideale cartina da tornasole del conflitto fra la creatività di un ‘autore’ e la volontà di controllo degli studios. Se Quarto potere era stato una straordinaria – e irripetibile – anomalia, L’orgoglio degli Amberson è un’opera monca, ammantata di una bellezza imperfetta. «C’è solo gente ricca che litiga dentro casa», sarà il commento lapidario di Welles su ciò che resta del progetto da lui coltivato ancora prima di Quarto potere e che, ne era convinto, sarebbe stato il suo miglior film: un affresco del primo Novecento con il respiro di un grande romanzo popolare. E a rivederlo oggi, ottant’anni più tardi, L’orgoglio degli Amberson continua ad offrirci un bizzarro connubio: il potere di fascinazione di un cineasta sempre più padrone del linguaggio della settima arte e il rimpianto per quelle “zone d’ombra” che ormai possiamo solo immaginare.