Ogni 10 anni, come forse saprete, la rivista Sight and Sound, una delle più importante riviste di cinema del mondo, pubblicata in Inghilterra dal British Film Institute, pubblica un sondaggio effettuato tra critici, storici, curatori di festival e rassegne per decretare quale sia il più grande film di tutti i tempi. È un gioco, chiaramente, ma è anche un indicatore di tendenze, gusti, mode e scie critiche, dello spirito dei tempi, ma anche di come cambiano i canoni.
Per esempio, nel 1952, anno della prima edizione del sondaggio, vinse Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, dal ’62 al 2002 restò saldo al comando Quarto potere di Orson Welles fino a venire scalzato nel 2012 da La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock. Tutti classici consolidati nella storia e nell’amore dei cinefili, fino a che nel dicembre 2022, quando il BFI mostra i risultati del nuovo sondaggio, scoppia la bomba: il nuovo film più bello della storia del cinema è Jeanne Dielman, 23 quai du commerce, 1080 Bruxelles, diretto da Chantal Akerman, un titolo e un nome che molti cinefili potrebbero non aver mai sentito. Perché?
Politicamente corretto? No: atto politico
Il film, realizzato nel 1975, racconta di una donna, la Jeanne Dielman del titolo, della sua comune vita da casalinga spezzata dal lavoro di prostituta a casa, all’indirizzo riportato proprio nel titolo del film, ne svela con rigorosa meticolosità la routine – sia nei lavori domestici quanto nel sesso – che poco a poco s’incrina, rivelando forse le pulsioni ribelli che sotto la forma anonima covano. È un film sperimentale, che lavora sui minimi gesti, le situazioni ripetute e minimamente variate, sulla durata di quelle stesse azioni (il film è lungo 201 minuti) e soprattutto è uno dei capisaldi, forse IL caposaldo, del cinema femminista, che porta avanti un preciso discorso sui ruoli sociali imposti alla donna, ovvero angelo del focolare e/o puttana, smontandolo attraverso lo stile che rifiuta tutti i parametri di ripresa e racconto imposti nel tempo dal cinema classico e anche dalle successive onde moderniste: le inquadrature sono ad un’altezza più bassa rispetto al solito, i tempi sono più lunghi, non ci sono scene madri perché non c’è una gerarchia delle immagini per cui la scena di sesso sia più importante di un bucato, il ruolo e l’oppressione della donna non viene esplorato attraverso il racconto, ma attraverso l’uso delle immagini in “tempo reale”. È un grande film, non semplice da guardare e del tutto lontano da ogni regola di intrattenimento (che, nella teoria di Akerman, è figlio di un sistema patriarcale), ma come mai è arrivato in vetta al sondaggio?
Qualcuno con la risposta pronta sta già gridando al politicamente corretto, sottolineando forse come la vittoria di una donna (ed è una cosa che capita di continuo, agli Oscar, ai grandi festival, ovunque una donna primeggi) sia una concessione pietosa dei maschi dominanti, ma se così fosse avrebbero vinto Jane Campion con Lezioni di piano, Katherine Bigelow o altre registe ben inserite dentro un canone cinefilo e dentro l’industria, invece si è scelto un film femminista, in opposizione a pratiche e consuetudini, fuori dall’industria. Non è correttezza politica, fatta per non offendere nessuno, ma è un gesto politico, discutibile quanto si vuole ma che rivendica un posto preciso per quel cinema fino a oggi escluso o molto appartato in classifiche accademiche di questo tipo e che merita invece di essere perlomeno visto e segnalato.
Tutto parte dall’ampliamento della platea di votanti a 1.639 (quasi il doppio del campione precedente), includendo quindi numeri sempre maggiori di partecipanti diversi dal tipo del maschio bianco sopra i 50 che era la maggioranza nel precedente sondaggio, per cui moltissime donne, molti provenienti da paesi diversi dalla sola Europa o Stati Uniti, moltissime “minoranze” geografiche, tanti “giovani”. Le conseguenze sono che questo cambio di prospettiva, misto anche a una ridefinizione dei criteri di scelta dei film in adesione allo spirito dei tempi, appunto, ha portato a un vero e proprio rinfrescamento del canone della cinefilia contemporanea (che ci piaccia o no): nella top 100, i film di diretti da donne sono saliti da due a undici, di un cui un paio in top 10 (il film di Akerman e Beau Travail di Claire Denis), quelli diretti da africani o afro-discendenti sono saliti da uno a sette; in top 10 sono entrati ben due film del nuovo secolo, In the Mood for Love e Mulholland Drive.
La cultura è un processo in divenire
Parallelamente, dal 1992, la rivista fa la stessa domanda ai registi che hanno fatto vincere Quarto potere nelle prime due edizioni, Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu nel ’12 e quest’anno 2001: Odissea nello spazio piazzando Jeanne Dielman al 5° posto: ne emerge fuori una classifica più equilibrata rispetto agli sconvolgimenti dei critici, più moderata per chi ci tiene alla conservazione della status quo, ma fa emergere anche il quadro di un’idea di cosa sia bello o brutto, molto più ricca e meno irregimentata di quanto avveniva in precedenza e basterebbe leggere le singole classifiche di ogni cineasta che la rivista pubblica: la decina di S. S. Rajamouli, il regista indiano di RRR da poco nominato ai Golden Globes sembra quella di un ragazzino, detto senza alcun giudizio.
Oltre le polemiche, figlie appunto di un’idea accademica, tradizionale della storia, ovvero così è stato e così sarà sempre, e accettato il fatto che un classifica è un gioco, specie se deve mediare tra migliaia di scelte diverse, questo sondaggio e le conseguenti reazioni rivelano soprattutto che ogni giudizio non è mai neutro, non è mai “oggettivo”, che i parametri e i canoni sono costruzioni culturali figlie dei tempi, dei processi passati e di quelli in corso, delle scelte che altri hanno fatto prima di noi e che ci influenzano tanto in senso positivo che in negativo, quindi sollecitando la nostra approvazione. Per esempio, l’idea che il passato sia necessariamente migliore del presente e che non si possa concepire un film come Scappa – Get Out allo stesso livello di Come vinsi la guerra di Buster Keaton, o che il fatto che quei film che sono in classifica da letteralmente 70 anni possano accusare il passare del tempo allo sguardo di un nuovo critico e studioso e che costui preferisca sguardi diversi, più nuovi o meno accreditati. L’idea stessa di canone è figlia dei sistemi culturali (politico, sessuale, nazionale, identitario) che l’hanno creata, per cui pensare che la grandezza di Quarto potere sia un dato inamovibile – per intenderci, chi scrive lo reputa un sommo capolavoro – significa pensare che il nostro canone di “bellezza filmica” sia quello per eccellenza, assoluto, oggettivo, mentre è un processo che subisce cambiamenti, ripensamenti, anche forzature figlie però di consapevolezze specifiche, che mirano a cambiare quei sistemi culturali che abbiamo sempre dato per intoccabili.
Da una parte c’è una questione di influenze culturali, dall’altra la voglia di spostare lo stato delle cose un po’ più in là del consolidato, portarlo a scoprire cose diverse perché per la prima volta si sono sentite anche molte voci diverse dal solito: è lo stesso processo che regola la Storia, del cinema come quella degli umani, un processo in continuo movimento, che si sposta in direzioni anche impercettibilmente differenti a seconda di chi la scrive. Per questo parliamo di atto politico e non di mera accettazione passiva di una scia, perché zittire in questo modo le nuove scelte di questa grande platea tacciandole di mancanza di senso della storia o peggio di conformismo, significa fare – per l’ennesima volta, si stancheranno mai? – la figura di chi sente il mondo e le certezze sfuggire loro di mano, quando sarebbe molto produttivo per tutti cercare di capirle queste scelte – senza per forza condividerle – e magari cercare di abbandonare qualche certezza di vecchia data.
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