È il 1998, l’anno in cui Titanic e James Cameron rivoluzionano il cinema e alla notte degli Oscar fanno incetta di premi, scrivendo una delle pagine più sensazionali nella storia dei blockbuster drammatici. People Magazine, la celebre rivista statunitense nata nel ‘74 dalla Time Inc., il 16 Novembre pubblica la sua annuale classifica dell’uomo vivente più sexy. Al primo posto Harrison Ford, 56 anni. Ma, tra i premiati, c’è spazio anche per un altro attore statunitense di origini canadesi: Brendan Fraser.
Se siete nati a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e i ‘90 questo nome è impresso nella vostra memoria, proprio come il suo film più celebre: La Mummia. Il remake di Stephen Sommers del capolavoro omonimo del 1932. Malino per la critica e per i pomodori firmati Rotten, ma uno straordinario successo al botteghino: più di 415 milioni incassati, a fronte degli 80 spesi.
Per Fraser è una carriera in ascesa, baciata dal successo dei film d’avventura e dei luoghi esotici che lui ama anche fotografare e con cui riempirà persino una mostra di beneficenza a Los Angeles. La sua è la storia di un connubio molto noto nel mondo dell’arte: il fascino e il trasformismo. Ma è anche una storia di ascesa, caduta e rinascita. Perché, come suggeriva un altro a cui piace imitare il dolore con l’arte, a che serve pensare al paradiso se tutta la mano regge l’inferno?
E mentre The Whale (che vi abbiamo recensito dal Festival di Venezia), è pronto a commuoverci, scopriamo insieme cosa si cela dietro la gloria perduta e ritrovata di Brendan Fraser, l’uomo che dopo gli scarabei e i cavalli, ha cominciato a sussurrare alle balene.
Il re della giungla
Brendan Fraser nasce a Indianapolis nel 1968, sotto il segno del sagittario, quindi con una certa predilezione verso la testardaggine, il coraggio e l’incoscienza. Il suo avvio nel mondo è già un sintomo del marchio di fabbrica che apporrà alla sua parte di carriera più celebre: l’avventura e la scoperta; ma non come archeologo o avventuriero, ma come figlio di un funzionario dell’ufficio del turismo del Canada. Viaggiare sarà la parola d’ordine della sua infanzia e forse della sua intera vita. Questo su e giù tra gli Stati Uniti, il Quebec e l’Europa, lo porteranno a sviluppare una serie di hobby che disegneranno anche i suoi personaggi più noti: la curiosità, l’esplorazione, la fotografia, i cavalli e, più in là, anche il tiro con l’arco. Una vita all’insegna dell’avventura che trova un affluente naturale tra gli schermi, a partire dal 1991, anno del suo debutto al fianco della regista e sceneggiatrice Nancy Savoca nel drammatico Dogfight – Una storia d’amore.
L’anno successivo Fraser ottiene il suo primo ruolo da protagonista in Il mio amico scongelato, una commedia fantastica diretto da Les Mayfield che sarà anche un discreto successo al botteghino. Ma avventura ed eclettismo vanno spesso di pari passo e, infatti, nello stesso anno recita in una tragicommedia degna del suo nome, Scuola d’onore; tra i compagni di banco una futura star come Matt Damon e uno che avrebbe potuto essere ciò che voleva, ma non è stato: Chris O’Donnell. Se dovessimo fare una semplice associazione di pensiero, Hollywood viene spesso accomunata a una giungla e quale habitat migliore per consacrare un esperto di luoghi esotici, che nel 1997 attira proprio l’attenzione delle major con la sua interpretazione e la sua strabiliante fisicità nella commedia avventurosa: George, re della giungla…?. Il cinema e i suoi fautori si accorgono finalmente di lui, ammaliati dalla sua capacità di convincere e affascinare ogni genere di pubblico: da quello femminile a quello maschile, non necessariamente per motivi diversi. Un piacere trasversale che comincia con una liana.
Sexy avventuriero
Ed è così che nel 1998, prima riceve il plauso della critica per la sua performance in Demoni e Dei di Bill Condon, poi fa il suo ingresso (a furor di popolo) nella lista degli uomini più sexy al mondo, a piena riprova dell’assioma da cui siamo partiti: belli e trasformisti. Un biglietto di sola andata verso un successo planetario, che toccherà il vertice nel 1999 con un altro O’Connell. Solo che questa volta non è un attore, ma il cognome del suo personaggio più noto: Rick, protagonista de La Mummia.
Un film action a tinte lovecraftiane, con sprazzi di teen horror, al fianco della straordinaria Rachel Weisz; la figurina rara di un album dedicato ai supercult della nostra infanzia. La pellicola entra nell’immaginario collettivo, ma Brendan rimane impigliato in un appellativo che qualche volta è una vera condanna, quello di sex symbol, e in un ruolo che riprenderà in due sequel, mai veramente all’altezza del primo nonostante villain di tutto rispetto come Imhotep e l’Imperatore Dragone.
Un’immagine di Fraser che, nonostante l’ampio riscontro, annebbia il suo excursus teatrale in La gatta sul tetto che scotta e il suo talento dispensato al fianco di Michael Caine nel dramma politico The Quiet American. Il nostro è bello, muscoloso, magnetico, ma nient’altro che questo, almeno all’ombra di chi pone marchi a Hollywood; etichette difficili da scollare, spesso motivo di carriere stroncate e finite. Perché nel cinema che conta, quando sei in cima, non puoi più permetterti sbagli. Ma lo spazio della sua bravura non si limita alle tombe o ai cuori d’inchiostro, ma valica i confini del blockbuster e si instaura in pellicole come l’acclamato Crash che gli varrà uno Screen Actors Award e la stella sulla Canada’s Walk of Fame, primo attore americano ad aggiudicarsi l’impresa. La maturità coincide con una nuova veste, da pupa a crisalide, ma la farfalla non sboccia perché nel 2010 arrivano due passi falsi: Elling, uno spettacolo teatrale cancellato da Broadway per le critiche e Puzzole alla riscossa, distrutto dalla critica e dal pubblico. È chiaro che qualcosa si sia rotto.
L’ombra dell’uomo
L’avventura e l’esplorazione hanno sempre un rovescio della medaglia. Diversi infortuni, per esempio. Lo scotto degli action movie non risparmia nemmeno Fraser, che per sette lunghi anni entra ed esce dagli ospedali per alcune operazioni alla schiena e alle corde vocali. Per sua stessa ammissione, nel 2008, mentre Jet Lee imperversava con i guerrieri di terracotta, sul set Fraser era tenuto insieme da ghiaccio e nastro adesivo. Tutto questo ha avuto delle conseguenze, come l’assunzione di diversi farmaci per attenuare il dolore e la depressione che intanto serpeggia nella sua vita per due motivi: il divorzio dalla prima moglie Afton Smith e le violenze sessuali subite da Philip Berk, ex presidente della Hollywood Foreign Press Association. Nel Marzo del 2018 Fraser rilascia un’intervista al giornale GQ, in cui racconta il peggior momento della sua vita, avvenuto nel 2003. Brendan si trovava insieme a Berk a un evento al Beverly Hills Hotel di Los Angeles, quando venne toccato in maniera inappropriata e inaspettata.
Citando lo stesso attore: “Mi sono sentito male. Come un bambino. Mi sembrava di avere una palla in gola. Ho pensato che sarei scoppiato a piangere”; secondo la sua testimonianza, Brendan si è subito alzato ed è fuggito, ha raccontato l’esperienza alla moglie, ma nulla più per evitare ritorsioni alla sua carriera. Prosegue ammettendo che avrebbe voluto più volte parlarne, ma senza successo, fino al caso Weinstein e la eco del movimento MeToo che ha abbracciato a piene mani. Ma l’ombra della violenza non si limita solo all’atto, no. Secondo Fraser, Berk e la sua compagnia lo avrebbero anche boicottato, non chiamandolo più ai Golden Globes e ponendolo nella sua lista nera – che a detta degli addetti ai lavori esiste davvero e distrugge le carriere dei grandi attori. Fraser era passato da ‘sex symbol’ a ‘persona indesiderata’. Lo stesso Berk, nella sua controversa biografia, ha parlato dell’accaduto ma affermando che non c’è stata alcuna violenza e di aver persino inviato una lettera di scuse a Fraser, con la firma dell’associazione in calce. Un’ombra di tenebra che ha spezzato lo spirito d’avventura dell’uomo venuto da Indianapolis, portandolo a un improvviso isolamento e a domande sul suo posto nel cinema.
Ma mentre il telefono del suo agente squillava sempre meno, i fan non l’hanno mai dimenticato e i figli delle sue epopee fantasy hanno continuano a chiedersi che fine avesse fatto quell’uomo tenebroso e affascinante che sfidava e destrutturalizzava i concetti base di macho e mascolinità tossica. Il sorriso ammaliante degli anni ‘90.
IL metodo Aronofsky
Se c’è un regista capace di mescolare i concetti di redivivo e redidivo, quello è di certo Darren Aronofsky, il regista newyorkese che ha fatto del grigio e del dolore la sua forma d’arte primaria. Molti di voi ricorderanno un altro bello e trasformista che imperversava tra gli anni ‘80 e ‘90: Mickey Rourke, anche lui poi vittima della maledizione del declino e tornato in auge, proprio grazie al suo talento e a Darren, nella pluripremiata pellicola The Wrestler. Sembra che il Re Mida dei grandi attori della nostra infanzia abbia approntato il suo metodo anche con Fraser, conducendolo nella storia di un uomo che deve per davvero fare i conti col dolore, con la rinascita e con le note agrodolci di una storia che ha commosso Venezia fino alla standing ovation, un’opera che il regista ha cercato di realizzare per dieci lunghi anni.
A Brendan Fraser ne sono serviti 20 per ritrovare la sua strada, per sedersi sulla poltrona durante gli Academy Awards e sperare in una statuetta che sa di risarcimento danni morali. Ma i premi, si sa, sono solo oro placcato e fuso. Ciò che rimane è l’applauso di un pubblico commosso che cura e lenisce i segni di una pelle violata, riaffiorando il ricordo di un attore che dal ‘99 in poi ha accompagnato il pubblico in un lungo viaggio fatto di nostalgia e avventure, le stesse sognate mentre transitava con suo padre da un posto all’altro del mondo. Perché tutto, nella storia del cinema, alla fine ritorna; come i grandi talenti, come i belli e trasformisti. Come le balene in mare aperto.