Quello di Luca Guadagnino (dal 24 aprile il sala con il suo ultimo lavoro: Challengers, con Zendaya, Johs O’Connor e Mike Faist) è un cinema carnale, in cui ogni elemento gioca un ruolo fondamentale all’interno del quadro narrativo e sensazionale. I suoi sono dei film capaci di ammaliare e di sbigottire, di materializzare nell’animo dello spettatore il grande mistero che avvolge la magia del cinema. Una poetica, quella del regista palermitano, che si serve dell’espressività dei corpi per indagare le più profonde delle pulsioni umane. I sentimenti e i desideri che avvolgono giovani protagonisti alla ricerca del loro posto nel mondo, in un cammino verso l’accettazione di sé e di ciò che li circonda.
Osservarsi, piacersi, chiamarsi
Chiamami col tuo nome è un’opera che si interroga sul valore delle cose. Spesso durante il corso della pellicola i personaggi si pongono dei quesiti, o gli pongono agli altri: Che cosa fate qui? E tu che cosa fai? Che fai ora? Quello che viene dopo sta tutto negli attimi di attesa prima di esalare una frase di risposta. Un’attesa appunto, quella di aspettare un una persona, un viaggio, un voto, fremente ansia per una verifica, un esito. Una vita intera aspettando. Quell’attesa che spesso viene smorzata dall’impossibilità di saper valorizzare una cosa, un evento, un modo di dire: “non lo faccio perché non mi va e non ne ho voglia”. Al giorno d’oggi quella noia che era caratteristica appartenente ai giorni del passato, ora non esiste più; viene scacciata, allontanata, non accettata. La distrazione e la superficialità sono le armi necessarie a vincerla e a rinchiuderla, una volta maturata, in una stanzetta scarsamente illuminata di una soffitta polverosa di una dimora lontana.
Osservarsi. Ogni personaggio del film ama osservare, cerca costantemente l’attenzione delle cose, anche più piccole e nascoste. Elio osserva Oliver. Oliver osserva Elio. Padre, madre, ragazze, ragazzi, piste da ballo, sigarette. I modi di fare, gli odori, i corpi al sole mentre si gioca a pallavolo (preludio a Challengers, chissà).
Come in un dipinto impressionista, nel quale quello che viene catturato lo è attraverso l’impressione e la percezione. Ogni cosa vive per essere osservata e soprattutto desiderata. Compiaciuti questi elementi che si muovono animati dal destino sono determinati ad incontrarsi e a fare conoscenza con il prossimo, forse solo per allietare quella noia delle attese in quelle interminabili estati afose. Un’esile e dolce sospiro di giorno, il quale asciuga quella goccia di sudore che bagna le labbra, occhiali da sole che rigano i capelli imbevuti di salsedine. Quel gusto intellettuale nell’osservare il bello e nel convincersi di saper apprezzare la bellezza, nel perdersi tra le rovine e i rimasugli di nudità dal sapore antico, il quale profumo inebria le sagome dei corpi e le fa risplendere nuovamente, una volta rispecchiatisi sul riflesso dell’acqua.
Piacersi. Persino le statue sono da toccare, in un congiungimento irresistibile tra presente e passato. Gli elementi prendono vita e colmano quelle stanza enormemente vuote. Le note di un pianoforti riecheggiano nell’aria mischiandosi al silenzio della natura. Nelle montagne, i due ragazzi sprigionano un urlo liberatorio, vogliosi di sentirsi vivi. Chiamami col tuo nome è un capolavoro sensoriale, nel quale l’uomo è desideroso di prendersi ed indossare le spogli dell’altro, per congiungersi con la natura di una danza primordiale di sensi. L’appropriazione del corpo: le spalle, la schiena, la pelle, i muscoli contratti; in questo senso, c’è il riconoscimento di una persona attraverso un oggetto che lo caratterizza e lo rende tale.
Chiamarsi. Nel film ci si chiede se sia meglio parlare o morire, se l’amore sia un sentimento vitale o solamente un’infatuazione passeggera. La confusione davanti a ciò che non si conosce, la realizzazione che la consapevolezza non sta nel sapere ma nel sentire. Elio e Oliver si cercano, si piacciono, si desiderano, amano il modo in cui reciprocamente dicono e fanno le cose. Ambire quei corpi talmente sensuali, che ti sfidano a desiderali. Mai dritti ed eretti, sono, invece, sempre curvi. Il loro è un modo di essere sfacciato, compiaciuto e voglioso di eros.
Baciarsi. L’amore è quel sentimento che ci fa attendere frementi nella speranza che quella cosa giunga presto. Nella loro prima notte, Elio si accascia su di Oliver, che lo accoglie tra le sue lunghe braccia protettive, gli è appena scoppiato dentro al cuore. I due si baciano e si chiamano scambiandosi il nome. Alla mattina, Elio ha uno sguardo malinconico, come se fosse consapevole di aver sprecato fin troppo tempo, Oliver gli sorride di rimando, mentre entrambi passano le mani su quel lenzuolo che fino a poco tempo fa gli aveva avvolti. Un film che si fa emblema di un atto di venerazione nei confronti della bellezza.
Lasciarsi. La difficoltà di accettare che forse non ci si rivedrà più. Quell’angoscia soffocante ed asfissiante.
Emozioni potenti che non devono essere soffocate dal timore di essere di meno, svalutarsi. È anche caratterizzato dalla paura inesorabile della sofferenza, l’amore, specialmente nelle generazioni attuali. “Tu mi farai soffrire ed io non voglio soffrire.” Ma cos’è peggiore soffrire per qualcosa di vivo e reale o convincersi di non star provando nulla solo al fine di non provare qualcosa? Alla fine, il corpo non verrà più guardato da nessuno.
Ricordarsi. È finita. L’estate, il calore, il germogliare. Il finale è rapito da un manto bianco di neve, è quello glaciale dei quotidiani inverni. C’è un’ultima frase pronunciata da Oliver nei confronti di Elio: “Mi ricordo tutto”. Lì, su quel focolare metaforicamente materno, il ragazzo scoppia a piangere lasciandosi trasportare dalle emozioni, egli non uccide la tristezza ed il dolore, anzi gli accoglie dentro al suo cuore, al pari della gioia che ha provato in quell’estate che gli ha cambiato la vita, consapevole e grato per quello che c’è stato.
Come (non) rifare Dario Argento
Nel 1910 Henri Matisse vide finalmente esposto il suo dipinto “La Danza”, il cui soggetto vede cinque figure danzanti le cui braccia sono distese in avanti con l’intento di afferrarsi l’un l’altra, in un continuo movimento rotatorio. I corpi raffigurati sono rappresentati attraverso un movimento sbilenco e curvo su di sé al fine di accentuare l’incessante movimento del cerchio. Con Suspiria (2018) Luca Guadagnino rappresenta questa perenne danza, attraverso un ballo terreno ed ultraterreno. Terreno è ciò che riusciamo a vedere, a toccare, a scorgere. Razionalmente produciamo dei ragionamenti, che conducono ad una conclusione sensata. L’ultraterreno è tutto ciò che non riusciamo a vedere. Oltre quella porta, quali terribili segreti si celano, quali voci popolano quei corridoi aridi? Delle presenza talmente oscure e misteriose la cui essenza è motivo di panico e di smarrimento.
L’opera, come un vento, si spinge da ovest ad est, da un continente all’altro, un sogno di una ragazzina, la cui aspirazione è la danza, in cui la libertà di evasione nasconde una verità ben più grande e cupa. Guadagnino irrompe sulla scena con sequenze horrorifiche dal forte richiamo pittorico, ogni elemento d’insieme è orchestrato per trasmettere un significato, nulla è affidato al caso. Ci sono delle regole, anzi dei dogmi che conducono il mondo, come se ci fosse una segreta casta a governarlo. Destino o coincidenze? In una Berlino di strade sporche ed in degrado, il suo tessuto urbano è intriso di punk, si staglia tra quelle tetre case la scuola di danza. Al suo interno passioni e devozioni, orrore e tragedia. Ogni sua stanza è ricca di specchi, gli stessi che riflettendo l’immagine rivelano qualcosa di oscuramente celato.
Il primo impatto è la danza, quello schiocco delle spalle curvate e quel tonfo al suolo, come un sasso che rimbalza nell’acqua. Niente musica, solo tu e le tue sensazioni. Queste ultime sono talmente potenti da essere incontenibili e la conseguenza è la nascita di un movimento. Un ballo costituito ancora una volta dal sudore della pelle e dal sospiro dello spirito, che avvinghiato al corpo crea una miscela perfetta di sensualità e perversione. La sensazione è come una trans determinata dall’utilizzo di droghe, quella recondita adrenalina che ti desta e ti fa viaggiare come in un mondo parallelo nel quale la danza trasporta in una dimensione originaria di bestialità attraverso una girandola di sensi.
Il corpo muovendosi crea sempre un movimento e quest’azione smuove qualcosa di recondito. Il movimento produce un’energia. Questa si trasforma in vitalità, in magia, come un un processo scientifico di angoscia e eccitazione. Eppure qualcuno bussa alla porta, fa presente che c’è ed attende di essere ricevuto. Chi è questa madre che non esista a far sentire la sua voce, come se fosse un desiderio da anni soffocato? Se Dario Argento nel 1977 faceva un film horror dove il colore esplodeva in un effetto di attrazione e repulsione irresistibile, Luca Guadagnino dirige un film in cui il colore è desaturato, privo di vita, eppure così colmo di essa. Un film che tratta della paura raccontandola come qualcosa di estremamente fragile. Il malvagio è stazionato al di fuori attraverso i fermenti politici ed identità nazionali (post seconda guerra mondiale e pre crollo del muro), ma lo è anche all’interno della scuola: quando finisce la danza, parte un’altra azione che è quella politica, in quanto queste streghe devono eleggere un nuovo leader che le guidi e le faccia sopravvivere.
Un opera di forti contrasti ed estremi opposti, dove è sia presente la demonizzazione e la deflagrazione del fisico, ma anche la tremenda e mirabile grazia con la quale i corpi si muovono all’interno dei contesti. L’usura e la rovina, l’invidia causata dalla fine della gioventù e la non accettazione della vecchiaia. La rivelazione della consapevolezza: l’arrivo di Susy è come un colpo di stato all’interno della piramide gerarchica delle streghe, lei è elemento destabilizzante poiché mischia carnalità e sensualità. La sua danza americana è come un’epifania davanti agli occhi europei fossilizzati. “Cosa hai provato mentri danzavi” La stessa sensazione che provo quando scopo, ma non con un uomo, più con un animale”
In questo senso c’è una profonda energia che attraversa le cose, i muri, i corridoi, una mistica fortunatamente incomprensibile ai comuni occhi mortali: un’appartenenza al suolo, alla terra e alla sacralità del movimento generato dal corpo, come una forza di attrazione che lega inevitabilmente al terreno che ci ha generati. Energia che è anche elemento erotico, quando questa si lega al piacere e al dolore, il risultato è come un orgasmo fisico e mentale.
La chiusa è un atto di clemenza e compassione ma potrebbe anche essere interpretato come un prepotente atto di forza e di supremazia. Come nel dipinto di Matisse, che rappresenta gli elementi primordiali: il cielo e la terra e li congiunge alle figure danzanti. Nel finale di Suspiria le streghe danzano nude trepidanti di conoscere la vera madre in un apparente senso di innocenza che allude ad un attaccamento all’infanzia priva di sensi di colpa e di responsabilità.
Il cielo e la terra non sono dunque solo due elementi di ornamento ma simboleggiano il mondo e l’universo e, in definitiva, l’essenza delle cose. Al centro dei due antipodi c’è la specie umana, o la vita stessa, che se in un primo momento danza allegramente scacciando le proprie paure, in seguito prende forzatamente parte ad un movimento vorticoso e perpetuo al quale si lega per sempre.
Amami e mangia
Ancora una volta Guadagnino si è rivela come uno dei più grandi cantori dell’adolescenza e della generazione z, e Bones and all (Leone d’argento – miglior regia alla 79esima Mostra del cinema di Venezia) può essere considerato a tutti gli effetti il suo film più equilibrato per stili e generi. Un’opera pregna di una tensione perpetuata nelle sequenze horror e mescolata alla tenerezza del teen drama tramutato poi in love story. Perché Bones and all è un viaggio di due adolescenti alla ricerca del loro posto nel mondo, partendo anzitutto dall’accettazione di loro stessi.
Per farlo hanno bisogno di cibarsi l’uno con l’altro, di mangiare ed essere mangiati, raccontandosi e riconoscendosi in un’America reaganiana non troppo lontana da quella dei nostri tempi, che abbandona i suoi ragazzi in un terreno dove è sempre più difficile trovare dei punti di riferimento. Il cammino di Maren (Taylor Russell) verso la ricerca della madre diventa, dunque, un vero e proprio road movie in cui farsi strada nella società, per trovare qualcuno in cui riconoscersi e con cui coltivare un senso di appartenenza. Quel qualcuno sarà Lee (Timothee Chalamet), anch’egli costretto a vivere nell’isolamento e nell’infelicità per la sua natura cannibale. Ritrovarsi e riconoscersi per capire di non essere soli in un mondo più violento dei protagonisti stessi. Ed è proprio tramite l’odore che gli esseri appartenenti a questa specie possono rintracciarsi. Quel senso epifanico che si lega indissolubilmente al corpo e alla pelle, al sangue e alla carne.
Chi sono i veri mostri? I giovani protagonisti alla ricerca di sé oppure gli adulti che tentano di emarginarli, lasciandoli in preda al loro destino fatto di incertezze? Qui il cannibalismo assume una valenza fondamentale, un qualcosa di paradossalmente innocente e naturale. Una metafora della solitudine e dell’abbandono, dell’incomprensione e dell’incomunicabilità, fino a quando non si trova qualcuno con cui colmare un senso di vuoto sempre più ingombrante. E la violenza di Maren e Lee non è mai estetica. Al contrario, è un incontro-scontro con la generazione precedente, un desiderio di riprendere in mano la propria vita.
Si parla sempre di Tennis
Challengers è l’ultimo grande tassello del quadro poetico di Guadagnino, in attesa di Queer, che verosimilmente sarà presentato alla prossima Mostra del cinema di Venezia. Quella che invece doveva essere l’apertura di Venezia 80 e che vediamo in sala dal 24 aprile, è un triangolo amoroso di Bertolucciana memoria, dove al centro di tutto ci sono corpi che si toccano e si cercano, si sfidano e diventano veri e propri oggetti dei desideri. Qui i protagonisti sono ancora una volta giovani belli e affascinanti, narcisisti ma estremamente autentici.
Il film va avanti e indietro nel tempo, come una pallina da tennis durante uno scambio tra due atleti. Ed è proprio il tennis a giocare un ruolo cruciale nel rapporto che Luca Guadagnino crea con il suo pubblico, non più spettatore o arbitro, ma giocatore attivo del grande slam inscenato dal regista palermitano. Lo sport non solo scandisce il ritmo della narrazione, ma esprime i conflitti relazionali che imprigionano i tre personaggi: il talentuoso e sfrontato Patrick (Josh O’Connor), il campionissimo sul viale del tramonto Art (Mike Faist), e Tashi (Zendaya), ex promessa del tennis diventata allenatrice a causa di un infortunio. E sarà proprio lei a cambiare per sempre gli equilibri del rapporto tra i primi due.
Una cosa è certa: si parla sempre e solo di tennis, anche quando non si parla di tennis. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare Challengers unicamente come un film in cui lo sport diventa una metafora dell’amore e delle relazioni umane. Il tennis, piuttosto, è trasformato dall’occhio balistico della macchina da presa in un vero e proprio archetipo del desiderio umano.
Guadagnino si dimostra ancora una volta abilissimo nel saper prendere un materiale non suo e trasformarlo in un qualcosa di suo, facendo confluire nel soggetto di Justin Kuritzkes sia tutta la passione per il melodramma rielaborato in chiave postmoderna in Chiamami col tuo nome, e anche quell’energia sprigionata dal movimento dei corpi delle danzatrici di Suspiria. Perché il tennis – così come la vita – è sì uno sport circoscritto in un rettangolo di gioco fatto di sguardi, tensione e conflitti mentali. Ma soprattutto è una danza angosciosa ed elettrizzante, in cui i giocatori piegano i loro corpi cicatrizzati per superare se stessi, per andare oltre i propri limiti.
Articolo scritto da Alessandro Ritrovato e Eugenio Begato
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