Nato a Baldwin, Long Island, Jonathan Demme avrebbe compiuto 80 anni il 22 febbraio di quest’anno. Manca tantissimo la sua verve, la sua simpatia e quel suo tocco così distintivo. Il nome di Demme è indissolubilmente legato a film che hanno influenzato l’immaginario pop di intere generazioni, evocando spettri di celluloide affascinanti, a tratti inquietanti, leggeri e brillanti ma decisamente mai banali o scontati. Il regista statunitense ha abilmente alternato graffianti maschere frutto dell’immaginario iperrealistico degli anni ’80-’90, ma anche simboli delle contraddizioni di un decennio di transizione, alla svolta con la fine del secolo e l’avvento del nuovo millennio. Il suo sguardo lucido e attento sulla realtà, ha dato voce ai cambiamenti dei tempi e delle coscienze, alternando con equilibrio i toni della commedia a quelli più drammatici, senza mai perdere le proprie distintive peculiarità.
Improvvise vertigini di uniche soggettive
Il Cinema di Jonhatan Demme è un cinema in continuo mutamento, attraversava i remake più classici dal respiro politico (The Manchurian Candidate) ma sapeva attraversare Parigi ballando in pieno periodo Nouvelle Vague (The Truth About Charlie). Demme poteva essere inserito negli stilemi classici dei generi per poi diventare improvvisamente qualcosa di diverso, di nuovo. Qualcosa di travolgente. Nel 1979 dirige Il segno degli Hannan, dalla forte riconoscibilità quasi hitchcockiana. Un thriller con un protagonista al centro di un oscuro complotto, segnato da quell’ossessione claustrofobica degli spazi anche esterni. Il film si apre a quelle vertigini improvvise, a quel salto nel vuoto del finale, nel quale la caduta sembra essere simile a quella di Vertigo. Le sue soggettive diventano qualcosa di unico, come gli sguardi incrociati tra Hannibal Lecter e Clarice Sterling nel Il silenzio degli innocenti (1991), horror con precise derive in cui si ricicla quella claustrofobia carceraria del suo film d’esordio, Femmine in gabbia (1974) in cui, oltre alla violenza esplicita e le nudità femminili, c’era già una forte identità.
I primi piani strettissimi, ipnotici, da giramento di testa e distorsioni da capogiro conducono Demme ad inquadrare generi e storie dall’impatto enorme su molti altri grandi cineasti. Paul Thomas Anderson, uno dei più influenzati dal cinema di Demme, da cui riprende l’uso della “camera soggettiva”, una tecnica in cui si mostra esattamente ciò che si trova nel punto di vista dell’attore, spesso seguito o preceduto dall’interprete che guarda direttamente nell’obiettivo. In Philadelphia (1993) fonde la sua forza nel duetto tra Danzel Washington e Tom Hanks, non solo due grandissimi attori ma due esseri umani diversi quanto fragili, immortalati da Jonathan Demme nelle loro debolezze, disposti a lottare contro un mondo pronto ad opporsi ai cambiamenti e ai progressi della modernità. “Abbiamo cercato di proporre un film che aiutasse a promuovere una cura e a salvare vite umane – dichiarò Demme all’indomani del successo del film – non volevamo fare un film che si rivolgesse a un pubblico di persone come noi, che avevano già una predisposizione a preoccuparsi delle persone affette da AIDS. Volevamo raggiungere le persone a cui importava di meno del problema. Quello era il nostro pubblico di riferimento”.
Le Commedie scoppiettanti e nevrotiche
Le sue commedie hanno sempre avuto una forza dirompente. Da quella politica fantasia sul “sogno americano” di Una volta ho incontrato un miliardario (1980) – che racconta la storia vera di un lattaio che aveva lasciato parte delle sue fortune – a Qualcosa di travolgente (1986), nel quale sfodera un ritratto femminile nuovo. Sotto il suo sguardo divertito e incalzante il film segna un’epoca nella raffigurazione della donna nel cinema, facendo da apripista ad un’intera generazione di “incorreggibili sbandate” pronte a lasciarsi amare ma travolgendo la vita del malcapitato di turno. Nel 1988 arriva Una vedova allegra… ma non troppo, strepitoso incrocio scoppiettante tra farsa e commedia in cui Demme orchestra un gruppo di giovani attori sulla cresta dell’onda, come Michelle Pfeiffer, per portare in scena un’incalzante operetta, aggiornata alle nevrosi newyorkesi pre-anni ’90. Il film, mutando costantemente, mostra come i lavori di Demme non siano mai realmente chiusi ma possono riaccendersi, anche da un taglio del montaggio.
Sogno reale o incubo onirico?
Già dall’esordio si vedeva la sua potenza nel disegnare le figure femminili. Fino all’ultimo: Dove eravamo rimasti (2015) con Meryl Streep nei panni di una vecchia rockstar che torna a casa in occasione del matrimonio del figlio. Così come sembra sgretolarsi la linea di confine tra finzione e realtà in Rachel sta per sposarsi (2008), un finto documentario girato come se fosse una storia vera dal finale indimenticabile, come tutto il cinema di Demme. Tra i ritratti più intensi c’è anche quello della casalinga che durante la Seconda Guerra Mondiale va a lavorare in fabbrica e ha una relazione in Tempo di swing (1984), nel quale ogni piano su Goldie Hawn cattura tutto il suo tormento ed estasi. Jonathan Demme era capace di danzare sempre tra il sogno e l’incubo e navigare oltre l’immagine in un universo apparentemente onirico.
Il suo cinema poteva diventare all’improvviso un incendio. Bastava un primo piano o una canzone come American Girl, in, Il silenzio degli innocenti. Terzo film, dopo Accadde una Notte e Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo, ad aver vinto i cinque premi Oscar più importanti. Un thriller di mosaici perversi, claustrofobico e fastidioso che scava, senza ritegno, nei meandri della mente umana e delle sue perversioni. Il film infrange tutte le regole perché è un horror parlato e intellettuale e questa volta il personaggio principale non è il classico agente ma una giovane recluta donna, scelta che spinge l’immedesimazione dello spettatore verso nuovi livelli di consapevolezza. Infine, c’è il Demme documentarista in cui emerge tutta la passione musicale del cineasta. Stop Making Sense (1984) inquadra il concerto dei Talking Heads del dicembre 1983 al Pantages Theater di Hollywood, per sffruttare tutto il corpo mutante di David Byrne (frontman), al fine di ribaltare l’estetica velocizzata in “stile MTV” in voga all’epoca, preferendo invece inquadrature lunghe e fisse in modo da esaminare con attenzione l’interazione dei musicisti sul palco.
In un’intervista il regista rispose di essere guidato dal suo entusiasmo. “È come se quel copione avesse una storia che, secondo il mio modesto parere, vale la pena di essere raccontata. Ci sono così tante cose che stanno accadendo nel nostro Paese e nel mondo oggi… Per un attimo riceviamo i titoli dei giornali, modellati per la maggior parte del tempo dalle aziende, ma qual è la vera storia? Beh, questo genere di cose mi eccita”. Jonathan Demme ci manca terribilmente. Perché è il Cinema di un uomo che non ha mai perso il contatto con le sue radici, tenendo l’occhio dello spettatore sempre eccitato e stimolato, preoccupandosi piuttosto di ciò che metteva sullo schermo e di infondere nella sua narrazione: energia, entusiasmo e umanità osservata con empatia. Dietro ogni film c’è sempre quel suo sguardo vivo e il suo sorriso da immaginare. Un valzer da danzare con gioia, come i bambini presenti in Finalmente domenica (1983), che ballano o come nel finale di Dove eravamo rimasti, il quale addio non poteva essere più dolce.
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