A volte film molto diversi tra loro sembrano raccontare la stessa storia e poco importa se cambia la modalità, il linguaggio o l’accoglienza del pubblico. Sono coincidenze interessanti, perché sembrano rispondere a domande pesantissime e per niente banali come “A che punto siamo? Come sta andando il mondo oggi?”. Più che il desiderio di raccontare una storia, sembra sia il bisogno di raccontare un sentimento generale, un’urgenza che solo poi diventa narrativa, trasformando i film da semplici prodotti di intrattenimento a cartoline di tornasole della nostra società.
Già da anni l’industria dell’intrattenimento sta evidenziando quello che forse è il maggior conflitto contemporaneo, quello generazionale tra genitori e figli, che si tramuta in uno scontro tra vecchio e nuovo mondo, tra regole impartite e cambiamenti spontanei. Potremmo dire tra la rottura di vecchi canoni e il loro rinnovamento.
Due film, usciti nelle scorse settimane sembrano avere più di qualche punto in comune. Stiamo parlando de La Sirenetta, ennesimo remake in live action di un Classico Disney, che sin dall’annuncio dell’attrice protagonista ha causato più di qualche stupida critica, e di Spider-Man: Across the Spider-verse, secondo capitolo di una trilogia animata che sta rivoluzionando non solo il concetto di multiverso (un concetto che, per quanto ne sappiamo molto poco, è di gran lunga abusato negli ultimi anni, a partire dall’essere la narrativa principale del più grosso franchise contemporaneo) ma anche di animazione cinematografica.
Storie per le nuove generazioni
Ariel è una ribelle. Lo era nel 1989 e lo è ancora nel 2023. Non si presenta insieme alle sorelle, è appassionata verso il mondo della superficie (un tabù per la società in cui vive), colleziona oggetti affascinata dall’ignoto, desidera cambiare vita scontrandosi non solo con le regole del suo universo, ma anche con il volere del padre, Re Tritone. Non è l’unico re della storia.
Anche Eric, l’umano di cui si innamora Ariel, dovrebbe seguire ciò che la regina sua madre gli impone di fare: rimanere a terra, evitare il mare e smettere di inseguire fantasie d’amore adolescenziali. Quasi fosse una maniera per controllare meglio i propri figli, re del mare e regina della terra non comprendono il bisogno degli eredi, sono spaventati dal cambiamento e, di fatto, non prestano ascolto alle richieste d’aiuto dei figli. Ne diventeranno consapevoli solo alla fine della storia, quando entrambi, e soprattutto Re Tritone (che, con un gesto commovente, sarà lui a lanciare in mare aperto, la barca dove sono seduti Eric e Ariel, separandosi dalla figlia definitivamente), capiranno del cambiamento da abbracciare e sostenere.
Di questa incapacità ad ascoltare i propri figli ne è subito consapevole Jefferson, il padre di Miles Morales, che si ritrova a dover fare i conti col suo ruolo di genitore. Come il figlio, anche Jefferson indossa una maschera: quella del genitore tutto d’un pezzo, sicuro di sé e desideroso di offrire il meglio al proprio figlio, anche tradendo un’eccessiva severità. Getterà la maschera solo in due occasioni: parlando con la moglie e discutendone con Spider-Man. Proprio in quel dialogo curioso, in cui il genitore è senza maschera e si apre a un figlio nascosto dietro il costume, Jefferson si interroga sul suo ruolo di genitore, consapevole di un dislivello comunicativo che lo separa dalla nuova generazione (lo stesso che la madre Rio tenta di accorciare parlando come i giovani, senza successo).
Dubbi senza risposte che coinvolgono anche il padre di Gwen Stacy, diviso tra il suo ruolo di capitano con delle responsabilità, che deve svolgere come un perfetto attore consapevole del copione, e padre di una figlia che ama e che fatica a capire.
Come ne La Sirenetta, Gwen e Miles non si fermeranno ai “No” e ai limiti che i genitori imporranno loro e si sentiranno liberi di scrivere la loro storia. Perché è questo che le nuove generazioni sentono il desiderio di soddisfare.
Altri mondi, altri canoni
Un mondo non basta. Questo mondo non basta. La narrazione del multiverso in Spider-Man: Across The Spider-verse è precisa, a fuoco, più di quanto fatto da altri recenti blockbuster ed evidenza quell’istinto al cambiamento che spinge le nuove generazioni. Eroi imperfetti, imprecisi, diversi tra loro (ma accumunati dallo stesso sentimento) che crescono e maturano grazie ai loro errori. Perché in un mondo di adulti dove “diventare grandi” significa trovare una strada precisa, fare carriera e seguire percorsi predefiniti, i giovani protagonisti preferiscono perdersi attraverso portali, nuove usanze, cambiamenti e imprevedibilità. A costo di cancellare altri mondi.
È il pericolo di Miles, che pur di seguire Gwen e farsi riconoscere come un degno Spider-Man, pur animato da buone intenzioni, rischia di creare una nemesi potentissima e annichilente, di distruggere mondi alternativi e perdere le persone che ama. È il pericolo di Ariel, che pur di seguire il proprio amore rinuncia alla sua natura di sirena, alla sua voce (che comunque non era ascoltata da chi, più di tutti, doveva ascoltarla) e mette a repentaglio l’intero regno del mare (quando Ursula sembra soggiogare Re Tritone prendendo possesso del suo tridente).
Pare, però, che questo sia il normale prezzo da pagare, perché non c’è cambiamento senza sacrificio. E questa è forse l’unica regola canonica che non si può interrompere in un multiverso narrativo, tra franchise e storie diverse, in cui il conflitto più forte è tra chi vuole mantenere lo status quo di questo canone e chi, invece, vive il mondo in una maniera nuova e quel canone lo vuole rompere, non per un capriccio, ma perché quei valori, quelle regole, quelle definizioni non bastano più. Che i protagonisti de La Sirenetta e di Spider-Man: Across The Spider-verse siano giovani curiosi, mossi dal fuoco (che come si dice? Brucia) di conoscenza e di sincera ribellione, non dovrebbe sorprendere nessuno. Sono eroi contemporanei che trovano immedesimazione nel pubblico più giovane e, ovviamente, spaventano il pubblico più attempato.
Un cinema mutaforma punk
C’è un personaggio nel film animato di Spider-Man che sembra raccogliere in un’immagine la descrizione perfetta di questi protagonisti: Spider-Punk, un vero e proprio capolavoro di animazione, mutaforma perché impossibile da incapsulare in una definizione, contro-corrente e contraddittorio.
A livelli diversi, La Sirenetta e Spider-Man: Across the Spider-verse rappresentano questa fluidità rinnovatrice. La versione live action del Classico Disney, più accademica per definizione, lo fa nei confronti della scelta dell’attrice protagonista, criticata in maniera ignobile per il colore della pelle, primo elemento canonico giustamente spezzato. Halle Bailey – che si dimostra ben presto l’elemento migliore del film – passa dall’essere sirena a ragazza, dall’essere muta all’esprimere tutta la sua meravigliosa voce: Ariel muta la sua forma più volte, sacrifica sé stessa, cambia corpo sino a rinnegare il suo mondo originario. Il suo destino non è tornare nelle acque meravigliose adorate da Sebastian, ma rimanere in superficie e diventare altro, ovvero sé stessa.
Spider-Man, invece, lavora più sulla forma e sul linguaggio. Impossibile descrivere e racchiudere in poche righe la maniera in cui il film di casa Sony sfrutta appieno le potenzialità del mezzo cinematografico e della grammatica dell’animazione per esprimere la propria forza ribelle. Tra personaggi animati in maniera diversa, momenti in live action, grafiche da fumetto, giochi tra 2D e 3D, uso delle forme, delle linee e dei colori, persino delle pennellate in maniera espressiva, libera e (perdonate la ripetizione) fluida, il film è qualcosa di rivoluzionario in termini di cinema d’animazione.
Rinnegare e rinnovare sé stessi per essere davvero sé stessi. E alzare un dito medio ai canoni di un vecchio mondo che non ci basta. Non quando c’è un multiverso di possibilità.
Fuori dal mar
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